Mosè salvato dalle acque

Nell'autunno del 2021 il Comune di Modena ha avviato il progetto sperimentale “Antenne”, con il quale ha assegnato a giovani tra i 18 e 34 anni degli alloggi con l'affitto scontato in cambio di volontariato. Angela Bonacini ha conosciuto un ragazzo che sta partecipando al progetto e ha deciso di raccontare la sua storia.

Mosè salvato dalle acque
Immagine con Profughi su un barcone in mare

Il Mosè biblico scampò alla persecuzione del faraone grazie alla madre che lo depose in una cesta di papiro sulle rive del Nilo. Quello che ho conosciuto l’estate scorsa è longilineo, alto un metro e ottanta, ha venticinque anni e la pelle nera, si esprime in un italiano comprensibile, si può dire che anche lui sia stato salvato dalle acque.

Come ci siamo conosciuti e perché ho sentito la necessità di sapere qualcosa della sua vita e di aiutarlo rendendomi utile? Tutto è iniziato una mattina dell’estate scorsa: ero nel mio orto, raccoglievo pomodori e ortaggi, il caldo era terribile, quando uscì dalla casa di fronte alla mia un giovane uomo di colore. Sapevo vagamente che in quello stabile abitavano molti immigrati africani in attesa di asilo. Attraversò la strada, si avvicinò e mi chiese: «Posso aiutare?» Lo guardai sorpresa: «Sì, grazie.»

Gli porsi un paniere e iniziammo a raccogliere insieme la verdura di cui vado molto fiera; quando l’ultimo ravanello fu colto, lo invitai a entrare in casa. Ci sedemmo in cucina, preparai un panino con il salame e versai un bicchier di vino. Se fosse stato musulmano non avrebbe potuto gustare la mia merenda, nonostante ciò sarebbe stato indelicato chiedergli a quale religione appartenesse. Il caso mi aiutò, perché prima di sedersi si tolse la camicia per il caldo, rimase con la sola maglietta e vidi che portava al collo un crocefisso. Il nostro dialogo iniziò a tavola, molto semplicemente. Fuori il sole era caldissimo, inaridiva il terreno e obbligava le mie galline a ripararsi nell’angolo più fresco del pollaio. Gli parlai di me, della mia famiglia e del volontariato che svolgevo in alcune associazioni cittadine. Non gli feci alcuna domanda di tipo personale, certa che se avesse voluto parlare di sé lo avrebbe fatto. Dopo aver osservato attentamente le foto posate sul caminetto, mi guardò con un sorriso che svelò meravigliosi denti candidi. Inaspettatamente iniziò a parlare con lentezza: «Sono Mosè, il nome è Mosè, sono della Nigeria, sono nato il 21 marzo 2018».

Lo guardai colpita, pensai a un errore linguistico, ma poiché l’uomo che avevo davanti era sveglio e attento, dietro a quella data, il primo giorno di primavera, sicuramente c’era un segreto o un evento straordinario. Senza fargli domande, gli offrii albicocche e pesche. È strano come io ricordi nei minimi particolari quella giornata: solitamente i miei ricordi sono meno dettagliati, ma quell’incontro è stato così importante per me da lasciare traccia nella memoria di ogni minimo particolare.

Sbucciando lentamente una pesca, continuò a voce bassa la narrazione della sua esperienza: «Sono arrivato in Italia quattro anni fa, il 21 marzo del 2018, sono nato quando quella notte una nave italiana mi ha salvato. Ero partito da casa due anni prima, mio padre era morto, ucciso, era giovane. Ho attraversato il deserto, poi in Libia. Vivevo prigioniero in un campo, obbligato a lavorare, gli uomini ci minacciavano con le armi».

Quelle poche parole svelarono un dramma. Ero commossa: era stato salvato dalle acque del Mediterraneo dopo un viaggio nel deserto, la lunga prigionia, poi l’attraversamento del mare con un gommone. Ora viveva in un paese lontano migliaia di chilometri dall’Africa e tentava di integrarsi in una cultura molto differente dalla sua in attesa di un documento che gli avrebbe permesso di lavorare.

Conoscevo la situazione dei migranti africani che arrivano in Italia via mare dai filmati, dalla tv o dalle foto pubblicate dai giornali, ma incontrare un testimone di quegli orrori, osservare i suoi occhi nel momento in cui descriveva la notte del salvataggio mi turbò profondamente.

Dopo avermi raccontato altri frammenti della sua vita, Mosè, come se recitasse una preghiera, mi disse: «Non voglio dire ancora».

Quelle parole mi colpirono: non avevo alcun diritto di interrogarlo, meglio evitare domande e tenere a freno la mia voglia di conoscere le sue esperienze, perché sicuramente desiderava dimenticare e iniziare una nuova vita nel nostro paese. Ci salutammo dopo esserci scambiati i numeri di telefono. Dopo quell’ora insieme nell’orto, lo incontrai in paese per bere insieme un caffè.

L’estate finì, alla metà di settembre mi telefonò per dirmi che aveva lasciato la casa. Dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno e un lavoro si era sistemato temporaneamente presso la famiglia di un connazionale ed occupava una camera che divideva con un ragazzo nigeriano. Desiderava una sistemazione migliore e mi chiese di aiutarlo a trovare un monolocale. Il giorno dopo telefonai a un conoscente che gestiva un’agenzia immobiliare. «Inutile» mi rispose, per la sua esperienza i proprietari non affittavano a giovani di colore.

Che fare? Per settimane controllai gli annunci che offrivano camere ammobiliate ma erano molto care. Avvertii Mosè che sarebbe stato difficile, ma che non avrei abbandonato la ricerca. Ci telefonavamo circa ogni settimana. Una sera lo invitai a cena e ci preparò una ricetta nigeriana, un piatto di riso con verdure davvero appetitoso che piacque anche a mio marito, innamorato di tortellini e lasagne.

Le settimane trascorsero veloci, nonostante il mio impegno non trovai una sistemazione per lui, fino a quando, all’inizio di novembre, notai nella bacheca della biblioteca un bando dell’Amministrazione Comunale rivolto a giovani lavoratori e studenti per l’assegnazione di miniappartamenti molto convenienti dal punto di vista economico. Gli assegnatari dovevano impegnarsi a svolgere ogni mese una quota di ore presso un’associazione di volontariato a scelta. Un progetto molto interessante. Lessi velocemente i requisiti: Mosè era in regola, avrebbe potuto presentare la domanda.

A casa mi collegai al sito, lessi con attenzione l’elenco dei documenti necessari e insieme a Mosè compilai la domanda. Accettò senza riserve di svolgere alcune ore di volontariato, quest’aspetto della sua personalità mi colpì molto.

Seguire l’iter burocratico non fu facile, non rimaneva che aspettare nella speranza che il ragazzo potesse finalmente abitare in un luogo decoroso e soprattutto piacevole, infatti le foto degli appartamenti che avevo visto in rete mostravano ambienti luminosi e ben arredati. Dopo circa due settimane ricevetti una mail che mi comunicava l’avvenuta assegnazione dell’alloggio a Mosè. Provai una grande soddisfazione che mi ripagò delle ore trascorse al computer e negli uffici comunali. Lo avevo semplicemente aiutato a superare alcuni ostacoli burocratici e informatici in un momento importante della sua vita.

Per caso avevo scoperto quel bando, un piccolo colpo di fortuna, che mi aveva dato la possibilità di aiutare un ragazzo serio, volenteroso, che si era impegnato a studiare l’italiano e aveva ottenuto la patente di guida in pochi mesi, malgrado le sofferenze patite in un campo di prigionia libico. Alla luce di ciò che ora so della sua vita, posso affermare che è veramente nato il primo giorno di primavera del 2018.

A metà dicembre il ragazzo portò nella nuova casa le sue cose; io gli procurai lenzuola, asciugamani e un piumino colorato.
Mi invitò a cena nel suo nuovo appartamento insieme a mio marito, il 21 marzo, giorno che lui considera il suo compleanno. L’appartamento mi stupì: era ancora meglio delle foto che avevo visto. Ci mostrò la sua camera luminosa e ampia e cenammo in salotto. Io stesi sulla tavola una tovaglia adatta per un’occasione davvero speciale. Portai anche una torta per festeggiare e lo spumante. Prima di sederci Mosè si avvicinò a me, mi abbracciò per la prima volta e mi disse a bassa voce: «Grazie». .

Subito mi sentii il naso pizzicare perché stava arrivando una lacrimuccia. Io non ho figli, ma quel ragazzo tanto riservato e serio mi aveva intenerito il cuore. Fortunatamente mio marito, con gran tempismo, stappò la bottiglia, il botto mi distrasse, alzammo i bicchieri e insieme gli augurammo una bellissima vita.


Maggio 2022

Articolo a cura di Angela Bonacini


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