BEN PASTOR

Stradanove incontra l’autrice delle ‘Vergini di Pietra', terzo romanzo con protagonista Elio Sparziano, il non romano più romano dei romani

BEN PASTOR

“Le vergini di pietra” non è un libro nuovo, è stato pubblicato lo scorso anno. Per qualche disguido e per motivi che non sono dipesi da me, soltanto ora riesco a far conoscere ai lettori il “secondo” eroe dei romanzi di Ben Pastor- il “primo” è, naturalmente, Martin Bora, l’ufficiale buono della Wehrmacht protagonista della serie pubblicata da Hobby&Work. Ascoltiamo quello che la scrittrice ha da dirci su Elio Sparziano, il non romano più romano dei romani.

In questo nuovo romanzo, il terzo della serie di Elio Sparziano, Lei intreccia una trama rivisitando uno degli archetipi più scuri, quello di Kurtz, del Cuore di tenebra di Joseph Conrad. In che cosa consiste il fascino degli archetipi, che permette agli scrittori di riscrivere versioni diverse di una stessa storia continuando ad incantare i lettori?    Dipende dalla definizione di archetipo. Se si volesse usare quella classica junghiana, l’archetipo ha la sua potenza nel fatto di essere ambivalente- come in uno degli archetipi più potenti studiati da Jung: Dio nei confronti di Giobbe. Jung osserva che la scommessa tra Dio e Satana riguardo alla capacità di un patriarca di mantenere la sua santità malgrado le sventure è un modo di dire che all’interno dell’idea del divino esiste il suo contrario, che è il demonio. L’archetipo attrae perché è eterno, perché- come dice Jung- a volte è misconosciuto o ignoto all’interno di noi, è l’idea primigenia. Ogni volta che chi scrive si accosta ad un archetipo, in realtà ha già la materia su cui lavorare: è una risorsa infinita, quella di usare l’archetipo.

Scrivendo di Sparziano e di Paullo Curzio, aveva più in mente l’originale di Conrad o lo straordinario ammodernamento della versione cinematografica in Apocalypse now?    E’ difficile rileggere oggi Cuore di tenebra ignorando Apocalypse now. Il nome Curzio era una citazione ovvia, ci ho aggiunto poi Paullo- cioè ‘il piccolo’- per dire ‘guardate che non faccio sul serio’. Avevo in mente primariamente Conrad perché avevo amato il linguaggio conradiano, essenziale ed eterodosso- perché l’inglese di Conrad è eterodosso in quanto non scrittore di madrelingua inglese. Con Apocalypse now l’analogia sta nel fatto che sia Sparziano sia Willard, il protagonista del film e quindi il Marlowe del caso, sono dei militari e hanno dunque questa duplice missione nell’ambito militare.

I sentimenti di Elio Sparziano nei confronti di Curzio sono ambigui: sembra essere nello stesso tempo affascinato dalla forza e dall’indipendenza di questo personaggio, un generale romano che ha avuto l’ardire di fondare un piccolo regno lontano dagli occhi di Roma, e tuttavia conscio che quella di Curzio è un’insubordinazione che deve essere stroncata. Riesce a trovare un equilibrio tra questi estremi? A me parrebbe di sì…    Credo che la chiave di lettura sia nella parola che usa Conrad, ‘wilderness’, regione selvaggia, che è la foresta cupa che fiancheggia il fiume Congo e la giungla asiatica lungo il Mekong nel caso di Willard. Qui interviene la fortuna, perché la parola ‘wilderness’ in inglese, oltre a luogo selvaggio significa anche deserto. La giungla o il deserto come metafora della difficoltà del singolo che si confronta con una missione impossibile e con un individuo che per certi versi gli assomiglia e per altri gli è speculare. La forza di Kurtz in Conrad e del colonnello Willard nel film di Coppola è nel fatto che entrambi sono emarginati, sono pericolosi per quello che rappresentano: sono ammirevoli in quanto capaci di creare una realtà alternativa di cui sono a capo, ma d’altra parte sono dei ribelli che vanno escissi non solo perché rappresentano un vero pericolo ma proprio in quanto ribelli. Non so quanto Elio riesca a trovare un equilibrio. È la storia stessa che risolve il problema per lui: non si deve più confrontare con questa realtà.

La fine del romanzo, oltre ad essere segnata dalla conclusione del duello tra Curzio ed Elio, contiene anche una difficile scelta che Elio compie, in una specie di sottotrama del libro. Riguarda un tema molto attuale, quello del possesso di armi letali da parte di chi potrebbe usarle senza scrupoli: un riferimento voluto a paesi dell’Oriente o del Medio Oriente?    Più che altro pensavo alla difficoltà che abbiamo con personaggi carismatici- Che Guevara, Bin Laden-, con persone che hanno una forza personale ma anche un carisma proiettato su di loro da altri. Questi signori della guerra sono pericolosi per questo: da una parte si teme il fatto che, chiunque siano e a qualunque compagine politica appartengano, possano fare uso di armi potenzialmente distruttrici per un qualunque numero di esseri umani. D’altra parte c’è il fascino terribile che le armi possano cadere in tali mani: ho sentito parecchie persone dire che il senso di sicurezza che provavano nei decenni passati era nel sentire una minaccia costante, quella della guerra nucleare, che paradossalmente manteneva la situazione nell’equilibrio dell’immobilità: era l’equilibrio del terrore, la definizione della guerra fredda. Nel caso di Elio Sparziano si pone un problema interessante: la sua evidente mancanza di fiducia nel potere in quanto potere, del potere in mani sbagliate che non sono necessariamente quelle di un usurpatore. Dopo la morte di Curzio il problema è ancora peggiore: dovrebbe essere risolto con la fine dell’usurpatore, in realtà in presenza di armi di distruzione bastano le mani di un ambizioso legittimamente al potere per creare il disastro.

Sparziano stesso confessa che ognuna delle sue missioni di ricerca finisce per essere, in fin dei conti, una ricerca dentro lui stesso. Sparziano in Egitto, Sparziano nel centro Europa, Sparziano in Armenia: il viaggio come percorso di crescita, dunque? Con quali differenze in queste tre diverse destinazioni?    Il primo viaggio era anche un ritorno al suo proprio passato: era il tipo di viaggio più di riflessione che di crescita, anche se la riflessione è sempre una forma di crescita. Il secondo è interessante perché si andava da un confine all’altro dell’impero, si misurava internamente l’estensione delle proprie paure e del proprio senso di sé all’interno del grande sistema dell’impero. L’Armenia è il viaggio in cui si cerca di esplorare il viaggio fisico e mentale nel cuore della propria oscurità, che non è tanto il lato oscuro dei desideri inconfessati, piuttosto confrontarsi con il proprio vuoto. E l’Armenia è rappresentata come un luogo di vuoto, ben diversa dalla giungla di Coppola. Confrontarsi con il vuoto interno e come il vuoto per molte persone sia un contesto paesaggistico difficilissimo da gestire. E’ un’Armenia agorafobica- la paura del vuoto e del silenzio, è il viaggio all’interno della propria capacità di silenzio e di vuoto.

Il paesaggio brullo e selvaggio dell’Armenia, più ancora che i paesaggi dei precedenti romanzi, è forse quindi un paesaggio dell’anima?    Assolutamente sì: non avevo da inventare nulla, il paesaggio ha costruito se stesso. Si va dalla regione piovosa della costa meridionale del Mar Nero alla regione desertica di una montagna aspra, senza piante per via dell’altitudine. L’ultima scena si svolge invece, di nuovo, in un luogo con l’erba e con l’acqua: come se il viaggio fisico e interno attraverso il vuoto attingesse ad una freschezza iniziale. Si parte dal mare e dalla pioggia e si arriva laddove c’è di nuovo vita e non più il vuoto.

Elio Sparziano, l’eroe barbaro della Pannonia, rivela sempre più una sorta di complesso di inferiorità per il suo non essere romano. Nel romanzo precedente, La voce del fuoco, il romano Decimo gli faceva un complimento enorme, riconoscendo che Elio era, nelle sue virtù civiche, più romano di un romano. In questo nuovo romanzo, pensando a Paullo Curzio, Elio torna a chiedersi che cosa sia un romano, quanto di romano sia rimasto in Curzio. Che cosa è un romano?    Per rispondere con Sparziano e non con una nostra definizione, un romano è chiunque sia cittadino dell’impero: è una definizione che travalica razza, religione, stato sociale. E qualunque sia il suo senso di inferiorità, in questo caso lui rappresenta Roma nella missione che gli è stata affidata. Elio sa di essere un romano. E’ un romano Curzio? Forse non lo è mai stato. Perché sei romano se pensi come un romano, cosa che allora non avrebbe avuto senso. Curzio è più un principe orientale per il suo comportamento. Per Elio chiunque sia nato nell’impero è un romano, per l’individualista che è Curzio, lui non lo è mai stato. Curzio è un grande militare. Curzio sta a Roma come il generale Patton sta agli Stati Uniti. Non per nulla ho dotato Curzio di due spade con l’impugnatura di madreperla, come si è sempre detto che fossero le impugnature delle Colt di Patton…

In questo romanzo davvero molto ricco ci sono almeno altri tre grandi archetipi. Uno è quello di Odisseo, con la sua sete di conoscenza.    Sono i veri archetipi junghiani- Odisseo che viaggia, che è curioso, vede luoghi nuovi e salva sé e gli altri solo in virtù della propria astuzia e non della sua forza. La vera astuzia di Elio è stata sapersi porre agli occhi di Curzio come un possibile antagonista, perché in questo modo ha una possibilità. Odisseo è anche l’archetipo del viaggiatore estremo, un viaggiatore non di diporto, che si porta al confine ultimo oltre al quale è possibile il suo stesso disfacimento.

Un altro è quello di Alessandro Magno…    Alessandro era già un mito venerato nella tarda antichità, ancora di più nel Medio Evo dove diventa modello del perfetto cavaliere e perfetto monarca. Sparziano si rende conto che chiunque abbia attentato alle libertà civili di Roma- da Cesare a Curzio- ha dietro di sé l’ombra splendente di Alessandro Magno. Sparziano vede Alesando come era visto dai letterati dell’antichità, esempio estremo di ‘hubris’, di arroganza umana; Alessandro è colui che osa scagliare la freccia contro Dio stesso. Alessandro è un parallelo di Ulisse: questi il re di una piccola isola, quello l’imperatore del mondo.
 
E infine c’è quello della maga Circe…    Non è il mio primo incontro con la maga: è l’archetipo dell’inafferrabile femminile che trovo estremamente attraente e che ha la base filologica nell’antichità E’ la figura femminile solo fisicamente accessibile, in realtà non la si può possedere veramente.

Pur considerando tutte le differenze- di tempi, cultura, ambientazione geografica, personalità- sempre più mi pare che Elio Sparziano, nel nocciolo della sua essenza, assomigli a Martin Bora: corrispondono entrambi alla figura dell’Eroe. Fallibile ma pur sempre un Eroe. E’ il bisogno che abbiamo di eroi, che le ha fatto creare due personaggi simili nella loro diversità?    E’ il mio bisogno di eroi, nel senso che un personaggio- e parlo anche da lettrice- per me deve essere più compiuto, più capace, più complesso di quanto lo sia io, più coraggioso nel gestire sfide che né io né chi mi circonda sarebbe in grado di gestire. Patton diceva che l’eroe è il figlio di puttana che riesce a resistere alla paura due minuti più a lungo di te. Non è riduttivo: la vera vittoria dell’eroe non è contro il nemico, ma contro la paura.

Acqua, fuoco, terra: ci sono i tre elementi nei tre titoli. Ci aspetta l’aria, nel prossimo?    Sì- l’aria intesa nelle varie accezioni del termine. Aria come essenza eterea, aria come ‘flatus’, come spirito da cui nascono le cose, più banalmente aria come vento, come calunnia, come passaggio di parola che può avere potenza distruttiva. E sarà ambientato nella Britannia seconda, nel centro ovest della Gran Bretagna, sopra il vallo di Adriano. Perché ho scelto i quattro elementi intorno a cui far ruotare i quattro romanzi? Perché per rapportarsi all’antichità bisogna usare un linguaggio e delle formule adeguate all’antichità. I quattro umori, o i quattro elementi o le quattro virtù sono punti saldi di riferimento nella costruzione della realtà dell’antichità.