La macchina delle immagini di Alfredo C., di Roland Sejko

Voci dalla sezione Orizzonti del Festival di Venezia.

La macchina delle immagini di Alfredo C., di Roland Sejko
Istituto Luce Foto d'archivio

“La cinematografia è l’arma più forte”. Questa la frase che troneggia in cima all’apparato scenografico allestito appositamente per la cerimonia di fondazione della nuova sede dell’Istituto Luce al Quadraro, Roma. Corre l’anno 1937. L’Italia di Mussolini ha già conquistato l’Etiopia e sancito un’alleanza con la Germania di Hitler che porterà alla nascita dell’asse Roma-Berlino. Due anni dopo, nel 1939, le forze italiane sbarcano sulle coste dell’Albania che viene così annessa al Regno d’Italia. Fra i militari giunti nella terra delle due aquile c’è anche Alfredo C., un cameraman che per il Duce e il suo cinema di propaganda ha già realizzato diversi documentari. Approdato in Albania, Alfredo ritrae con l’occhio impassibile della cinepresa l’operazione di sbarco e conquista messa in atto dall’esercito italiano. Flash forward: è l’8 settembre 1943, Badoglio ha firmato l’armistizio che decreterà il passaggio dell’Italia dalle forze dell’Asse al fianco degli Alleati. I soldati dell’esercito italiano dislocati in Albania tentano di fuggire dalla furia delle truppe del Reich, rifugiandosi sulle aspre montagne del paese balcanico. Una volta sparita la minaccia tedesca, essi si riversano verso le coste nella speranza di trovare le navi della marina italiana ad attenderli per il rimpatrio. Non sarà così. Saranno invece ben 27000 i militari italiani trattenuti sul territorio albanese dalla neonata dittatura comunista.

E Alfredo C.? Alfredo è tra questi. Considerato una risorsa per la grande macchina di propaganda del nascente regime, egli è costretto a mettere le sue doti registiche al servizio di un nuovo tiranno. Così, dall’oggi al domani, senza soluzione di continuità, Alfredo passa da un totalitarismo all’altro, da un Duce-Mussolini-, a un Kommander -Enver Hoxha-, trovandosi di nuovo a raccontare, armato della sua fedele cinepresa, le gesta eroiche di un capo e del suo fedele popolo. Col suo implacabile e accanito sguardo, sarà proprio la macchina da presa, tuttavia, a rivelare al protagonista la crudeltà e l’insensatezza delle pagine di Storia che egli ha contribuito a immortalare tanto sapientemente. In un valzer continuo tra presente e passato, tra technicolor e bianco e nero, tra scene girate ex novo e documenti d’archivio, vediamo Alfredo riavvolgere il nastro della moviola, quella dei suoi filmati, ma anche della sua vita. La vicenda personale si intreccia così con i rivolgimenti della grande storia, sottolineando come nell’infernale macchina dei regimi la responsabilità del singolo e il suo agire, consapevole o meno che sia, giocano un ruolo imprescindibile.

Intensa l’interpretazione di un grande Pietro De Silva, che regge una scenografia essenziale quanto lo è l’intera struttura delle scene, costruite attraverso l’escamotage del flusso di pensieri anziché sul tradizionale dialogo.

Il film è un risultato della ricerca del regista, Roland Sejko, negli archivi dell’Istituto Luce e del Minculpop albanese, ma va sottolineata la perizia della mano invisibile, eppure sostanziale, del montatore Luca Onorati, che ha saputo lavorare di lima per “cucire” insieme le sequenze documentarie con il girato inedito, conferendo una straordinaria efficacia a entrambi.

“La cinematografia è l’arma più forte”, diceva Benito Mussolini. “Il cinema è la più importante delle arti”, asseriva prima di lui un tale Vladimir Lenin. E forse è questo il messaggio più profondo del film: la macchina delle immagini, strumento sublime quanto potenzialmente mostruoso, va saputa maneggiare con cura. Da quanti la usano, ma soprattutto da coloro che la subiscono.

Faleminderit (“grazie” in lingua albanese) signor Sejko, una piacevole scoperta nella sezione Orizzonti del Festival.

Settembre 2021

Articolo a cura di Chiara Minarelli