Se i barbari siamo noi. L'imbarbarimento della vita civile e i rischi per la democrazia

Nel suo nuovo articolo, Daniela Mariotti riflette sul significato che la parola "barbaro" ricopre oggigiorno, spingendoci a ripensare noi stessi.

Se i barbari siamo noi. L'imbarbarimento della vita civile e i rischi per la democrazia

Imbarbarimento, barbari, barbarizzazione…  sono parole che stanno rimbalzando in questi giorni negli editoriali dei giornali, stimolate anche da alcuni risvolti non proprio edificanti della crisi di Governo. Ma già da tempo si parla di barbari nella società italiana, poiché il termine barbaro ha acquisito un significato più esteso e sembra essere divenuto un carattere antropologico della contemporaneità, che abbraccia cultura politica e società. Secondo Alberto Asor Rosa (“I barbari visti da vicino”, La Repubblica, 12 Agosto), i barbari siamo noi, che abbiamo perduto comportamenti “civili” di fondo.

La volgarizzazione del linguaggio della comunicazione pubblica, il degrado del costume sociale e politico, in particolare certi strappi di deputati e senatori rispetto alla grammatica costituzionale, l’anti-intelletttualismo e il discredito delle élite, l’ostentazione della maleducazione e perfino della violenza nei rapporti civili, e anche la commistione fra religione e politica… (come se duemila anni di Storia non fossero bastati per sancire la laicità dello Stato), sono davanti ai nostri occhi.

E’ di questi giorni la notizia che turisti “vandali” hanno rubato la sabbia delle coste meravigliose della Sardegna. Sembra un film, e invece è cronaca. Donald Trump – usciamo pure dai confini nazionali perché il fenomeno riguarda tutti i Paese “democratici” – ha annullato la sua visita in Danimarca perché la Danimarca non vuole “vendergli” la Groenlandia, che è legittimamente territorio danese. E’ tutto vero? Sembra di sì. Vogliamo parlare dei devastanti incendi che si perpetuano da anni in Amazzonia (ma anche in Italia!) per interessi economici? E cosa dire dell’indifferenza, del cinismo della volontà politica con la quale stiamo distruggendo i beni naturali più preziosi della Terra, indispensabili alla vita di uomini piante e animali?

E’ uno scenario desolante: oltre alla sollevazione di nuovi barbari, sembra di essere alla vigilia della “fine di una civiltà”… oppure del “ritorno di un nuovo Medioevo”… secondo il punto di vista.

Dunque il barbaro che è in noi non solo si è risvegliato, ma si sta organizzando: tutte le pagine e i profili social che funzionano soprattutto con l’enfasi che proviene dalle viscere dei propri iscritti (pancia… istinto..  forze libere dalla razionalità e perciò dal buon senso), hanno un grande spazio nei media; e grande spazio hanno gli haters (gli odiatori), che sono diventati una classe sociale.

Ma volendo ritornare al pezzo di Asor Rosa, interessante è la conclusione: intervenire, “cambiare le cose, tutte le cose, con idee, programmi, comportamenti…”. Dunque “fare”.

Che cosa si può fare?

Credo che la parola d’ordine sia educare. Sembra che il verbo educare, che ci ha accompagnato dalla paideia greca fino alle soglie di questa che appare ormai inequivocabilmente una “nuova età”, al di là che si presenti con un futuro quanto mai incerto, sia diventato desueto, stantio, superato; come certe idee del passato, i riti e le abitudini patriarcali spazzati via dalla rivoluzione culturale del ’68, che ci ha emancipato dai condizionamenti sociali di una lunghissima tradizione e ci ha reso più  liberi di affermare noi stessi.

Ma l’educazione oggi è tutt’altro. In un mondo sempre più multiculturale e multietnico, il cui  modello economico ci sta portando ad un punto di non ritorno per la salvaguardia dello stesso pianeta, e dove il “deficit più profondo” secondo Michele Serra (“L’amaca, Il deficit più profondo” - La Repubblica, 23 Agosto) potrebbe essere il “crollo del tasso di educazione”, la grande sfida ci sembra che sia “fare pace tra gli uomini e fare pace con il creato” (Alexander Langer).

L’educazione non è un compito soltanto della Scuola e dell’Università; educare è un’azione intrinseca all’esistenza individuale e collettiva; educhiamo noi stessi sempre, ogni giorno, in qualunque modo, e ci educhiamo gli uni gli altri: al lavoro, se leggiamo un libro o un giornale, se scriviamo o facciamo una passeggiata o salutiamo un amico per strada: ogni esperienza e ogni relazione umana è o può essere una relazione educativa, che va nella direzione dell’armonia  e del dialogo con se stessi e con gli altri oppure esattamente in quella contraria. Dipende da quanto siamo connessi con quella finalità.

La barbarie di cui si parla in questo momento è proprio la corsa verso il sovvertimento di questa connessione, cioè la perdita di un orizzonte di valori che alla fine sono quelli della democrazia, che ci permette di essere oppure no il più possibile comunità.

Rinnovare le strutture politiche economiche e sociali di un Paese è legittimo, anzi è utile. Pensare ad un cambiamento sostanziale di leggi e procedimenti amministrativi in questo momento è quanto mai doveroso, considerando i gravissimi problemi che abbiamo di fronte. Ma - come è stato ribadito chiaramente da più parti - se tale rinnovamento non avviene tenendo fermi alcuni capisaldi culturali prima ancora che politici, il rischio di una deriva della democrazia è altissimo.

Niente è scontato e duraturo per definizione. Tutto ciò che accade è il risultato delle vicende storiche e perciò umane, che sono continuamente variabili e condizionabili.

A cosa può condurci la barbarie in corso d’opera, la distruzione di tante esperienze del passato e del presente, che ci hanno consentito di acquisire a caro prezzo i fondamenti della nostra civiltà?

Possiamo sovvertire il passato e lanciarci verso il modello di società illiberale e autocratica che vediamo già in atto  (Russia e il gruppo di Visegrad) nell’illusione di un “nuovo corso sovranista” che ci liberi dalle pastoie di una democrazia in affanno su più fronti, oppure tenere fede alla nostra tradizione europeista, la più democratica che la Storia abbia conosciuto, che ci ha consentito di vivere in pace per 74 anni, l’unica che – nonostante le  contraddizioni e le mancanze intrinseche e bene riconoscibili –  tiene acceso tuttavia la fiaccola della libertà.

A cura di

Daniela Mariotti

Settembre 2019