L’UOMO CHE MORÌ COME UN SALMONE, MIKAEL NIEMI

Un thriller diverso da qualunque altro

L’UOMO CHE MORÌ COME UN SALMONE, MIKAEL NIEMI

Pajala, estremo nord della Svezia, nella zona di confine con la Finlandia. Il vecchio Martin Udde viene trovato morto nella sua casa di legno. E’ stato ucciso in maniera brutale con una fiocina per salmoni. Una parte del suo corpo è carbonizzata sulla piastra elettrica di cottura. La trentatreenne Therese Fossnes, della polizia di Stoccolma, arriva sul luogo per indagare. E già sul piccolo aereo a nove posti che la porta da Luleå a Pajala si accorge di qualcosa di singolare che diventerà poi molto importante nella sua indagine: una coppia di passeggeri scambia delle parole in una lingua che Therese non capisce. E’ finlandese.


   Sembra che Therese sia arrivata in un altro paese che non è la Svezia: l’auto di servizio su cui sta viaggiando nel tragitto dall’aeroporto a Pajala frena bruscamente davanti a delle renne sulla strada. Piru- anche il poliziotto che è al volante usa il finlandese per indicare gli animali. Foreste, silenzio, il sole che non tramonta mai, questa lingua un po’ strascicata che si chiama meänkieli e che è un finlandese un po’ imbastardito. E poi un vecchio morto ammazzato: chi poteva avercela tanto con lui?


   Therese inizia a interrogare chiunque abbia conosciuto Martin Udde e i vicini, nel caso abbiano visto qualcuno di sospetto aggirarsi nella zona. Era stata notata una Mercedes scura, a bordo una donna con dei denti d’oro che si infilava nelle case con il pretesto di chiedere dell’acqua da bere mentre il suo compagno ne approfittava per rubare...Ma l’indiziato numero uno è Esaias, cacciatore e pescatore che si rifiuta di parlare in svedese, benchè lo sappia benissimo, e richiede un interprete.


   “L’uomo che morì come un salmone” di Mikael Niemi è un thriller diverso da qualunque altro- o meglio, ha in comune con alcuni romanzi del genere poliziesco l’inserire il crimine nella trama per evidenziare qualcosa d’altro. In questo caso l’assassinio di Martin Udde è l’apice del dramma di una minoranza, è la conclusione di un dissidio interno basato sul nazionalismo e sulla discriminazione. Quello che viene fuori a poco a poco- dagli interrogatori ma anche da confidenze e confessioni- è incredibile. Oppure credibilissimo perchè riflette la stessa crisi di identità di tutti gli immigrati o di chiunque si trovi, per un qualche motivo, trapiantato a vivere in una terra che non è la sua.


   Nel caso dei Tornedaliani le radici sono ben affondate in questa valle del Torne che però è stata ‘passata di mano’ più volte, contesa tra Svezia e Russia- come viene raccontato in un paio di capitoli di storia in cui i fatti sono esposti in un leggero tono conviviale. Una riga tracciata dalla penna di un potente su una carta geografica decide della sorte di centinaia, o migliaia di persone. Per rendere le cose più facili a chi tiene la penna in mano, la riga segue magari un tratto già segnato, un fiume, ad esempio. E famiglie e parenti e amici possono trovarsi, all’improvviso, ad avere due nazionalità diverse. La maggior parte dei Tornedaliani ha cercato di integrarsi in maniera pragmatica. Se la lingua è la patria, lo svedese doveva diventare la nuova lingua. Molti la scelsero di loro volontà, cambiando persino il cognome svedesizzandolo, parlando in svedese ai bambini (che si sentivano esclusi dai colloqui intimi dei genitori che continuavano a parlare il meänkieli tra di loro). Molti adulti ricordano, tuttavia, le punizioni inflitte loro a scuola, se erano sorpresi a parlare in meänkieli. Nel secolo XXI è venuto per i tornedaliani il momento di rivendicare la propria identità, di riappropriarsi con orgoglio della loro lingua.


   A proposito: il lettore scoprirà presto che era la lingua di Martin Udde il pezzo di carne che arrostiva sulla piastra incandescente...

Mikael Niemi, L’uomo che morì come un salmone, Ed. Iperborea, trad. Laura Cangemi, pagg. 322, Euro 16,50