ECCOMI, Jonathan Safran Foer

Ci sono pagine molto belle in “Eccomi”. Ci sono frasi molto belle, che uno vuole sottolineare per tornare a rileggerle. Ci sono spunti di riflessione, parole che ci risuonano in mente. (M. Piccone)

ECCOMI, Jonathan Safran Foer

      C’era molta aspettativa intorno al nuovo romanzo di Jonathan Safran Foer, il primo dopo anni di silenzio, a quattordici anni di distanza da “Ogni cosa è illuminata” che gli diede la fama quando aveva solo venticinque anni. Tutti i giornali hanno già parlato di “Eccomi”, hanno già sottolineato il richiamo biblico del titolo, il riferimento all’ ‘Eccomi’ ripetuto per ben tre volte da Abramo a Dio che gli ha chiesto il sacrificio del suo unico figlio Isacco. ‘Eccomi’ che è una dichiarazione di disponibilità totale a qualunque richiesta, un aprire la mente e il cuore senza riserve. E la sensazione che si ha, dopo aver terminato la lettura del libro è che ‘eccomi’ sia anche uno svelarsi dell’autore, un mettersi a nudo, un dire, ‘questo sono io (non interamente), prendetemi come sono, questo è quello che ho fatto (non proprio, non esattamente), questo è quello che penso (non alla lettera)’. Perché “Eccomi” è la storia di una famiglia (un po’ più che media) americana- padre scrittore, madre architetto, tre figli, un cane- che vive le vicende medie di ogni famiglia- i problemi dei figli, un tradimento (forse), la fine dell’amore, la separazione- e insieme alla crisi domestica si trova ad affrontare un’altra crisi di maggiore risonanza. Un fortissimo terremoto colpisce il Medio Oriente (strana coincidenza, leggere del dramma di un terremoto nei giorni in cui la terra ha tremato violentemente nel centro Italia), la crisi in Israele non è soltanto umanitaria, la minaccia della guerra è concreta. Come si risponde ‘eccomi’ a un figlio sull’orlo dell’adolescenza che non vuole fare il bar mitzvah, a una moglie giustamente ferita da messaggi sessualmente espliciti trovati su un secondo cellulare e rivolti ad un’altra donna, ad un nonno sopravvissuto alla Shoah e stanco di vivere, ad un paese- Israele- che rivolge un appello a tutti gli ebrei, ovunque essi siano, sparsi nel mondo, quando non si sente alcun legame con una patria che non si avverte come propria? Come si risponde ‘eccomi’ davanti a se stesso, all’incertezza della propria identità come marito, come padre, come ebreo?

    

   Sono tanti quesiti, tanti dilemmi, e ci sono tante storie e tanti personaggi nel romanzo di Foer. Principalmente è la storia di una coppia, con il flash sul momento critico in cui una chiede all’altro, ‘ti senti triste a pensare che amiamo i nostri figli più di quanto ci amiamo tra di noi?’ (e Julia non sa che sta ripetendo una battuta dello sceneggiato che Jacob ha scritto), o su quello in cui ripetono il viaggio verso l’alberghetto in cui erano stati così felici una decina di anni prima e niente è più lo stesso, è scomparsa la polvere di stelle, o su quell’altro- e qui si raggiunge il punto di non ritorno- in cui Julia trova per caso un nuovo cellulare di Jacob. Con quei messaggi. Che sanno di sporco. Che non lo sarebbero se fossero indirizzati a lei.

   

La narrativa è in terza persona, ma fitta, anzi fittissima, di dialoghi che suonano del tutto naturali (anche se a volte un poco stancanti), che ci fanno sentire la presenza di Julia, di Jacob, dei tre figli (il problematico Sam che si isola nell’altra vita di un video-gioco, il geniale Max, l’adorabile Benji di cinque anni), del nonno che aveva scelto di venire in America invece di seguire il fratello in Israele (erano gli unici due della famiglia scampati allo sterminio, hanno tutta una loro storia alle spalle), dei cugini israeliani che arrivano per il bar mitzvah di Sam (così diversi, così ‘fisici’ e meno cerebrali), e, sì, anche del vecchio cane Argo che ha un ruolo importante: la scena finale del libro è dedicata a lui, tocca a lui chiudere il capitolo della famiglia Bloch che in Israele si chiama Blumenberg, tocca a lui sottolineare la tristezza del senso di perdita che pervade il libro.

    

    Ci sono pagine molto belle in “Eccomi”. Ci sono frasi molto belle, che uno vuole sottolineare per tornare a rileggerle. Ci sono spunti di riflessione, parole che ci risuonano in mente, come il kein briere iz oich a breire, ‘anche non avere scelta è una scelta’ di nonno Isaac: ci sembra che, se ne afferriamo il significato profondo, si accenderà una luce davanti a noi. Ritroviamo nel romanzo situazioni e pensieri che potrebbero essere nostri- in un certo senso è un romanzo in cui c’è tutto. E tuttavia c’è un po’ troppo di tutto, c’è sovrabbondanza. Proprio per questo a volte abbiamo l’impressione che, se anche tralasciamo di leggere qualcosa, non perdiamo nulla. E questo non è bene. 

Ed. Guanda, trad. I.A. Piccinini, pagg. 666, Euro 18,70

                        Recensione a cura di Marilia Piccone

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