BELLA MIA, DONATELLA DI PIETRANTONIO

Un romanzo che parla di ricostruzione: la ricostruzione di una città offesa che attende ancora il suo riscatto e quella, faticosa, degli affetti intimi e della fiducia nella vita

BELLA MIA, DONATELLA DI PIETRANTONIO

L’Aquila. 6 aprile 2009. Una scossa di terremoto di magnitudo locale 6,2. Gli orologi si fermano alle 3,32 del mattino. Mi vengono in mente i versi della bellissima poesia di Auden, Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,/ fate tacere il cane con un osso succulento,/ chiudete i pianoforti, e tra un rullio smorzato/ portate fuori il feretro, si accostino i dolenti. Fermate gli orologi non per un solo amato ma per tutte le vittime del terremoto, portate fuori 308 feretri.

Fermate gli orologi per la bimba nella piccola bara bianca posta sopra quella scura della sua mamma, per la bambina di sei anni che Lorenza (uno dei personaggi del romanzo “Bella mia” di Donatella Di Pietrantonio) va a trovare ogni giorno al cimitero, preoccupandosi che abbia freddo e si senta sola laggiù, per Olivia, gemella di Caterina (io narrante del romanzo), per tutti gli altri che sono rimasti sepolti sotto macerie di case che tecnici poco accurati avevano giudicato sicure, per una città che è morta con la sua gente, con le sue fontane, le sue chiese, con le case e poco importa se fossero patrimonio artistico o no.

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Cantavano gli uccelli notturni, uno in particolare ripeteva sempre lo stesso chiù monotono. Ho creduto di riconoscere l’assiolo, una volta Roberto ci aveva detto che il suo verso è un Mi bemolle. Nemmeno il tempo di chiedermi che ci facesse un assiolo in centro, hanno taciuto, tutti insieme. Quasi nello stesso istante si sono messi ad abbaiare i cani, in coro, a cerchio, dai palazzi e più lontano, dalle campagne e dalle frazioni della città. Davano l’allarme per quello che arrivava, nella loro lingua inascoltata. Confusa tra le altre, la voce di Bric da Onna latrava contro la resistenza del suo padrone e io non ne sapevo niente. Di colpo mi ha investito l’aria dura, non il vento, una massa compatta di aria percossa. Sono rientrata con un salto ed è cominciato.

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Sono passati quattro anni al tempo in cui Caterina racconta. Cinque per noi che leggiamo ora “Bella mia”. Ed è come una frustata che ci fa sobbalzare. Perché noi che non abitavamo all’Aquila, noi che non siamo stati sistemati in case provvisorie (quel temibile provvisorio italiano che può diventare definitivo), noi abbiamo la memoria corta, confessiamolo- quasi ci eravamo scordati dell’Aquila. Che ci ritorna con prepotenza in mente con il romanzo della Di Pietrantonio che prende il titolo da una canzone- Aquila bella mé…te vojo revetè. Caterina, sua madre, Marco, sono i personaggi del libro.

Una famiglia che era composta da sei persone e ne sono rimaste tre- il padre di Caterina, però, è morto da tempo, Olivia era tornata a vivere all’Aquila con Marco dopo la separazione dal marito, è rimasta sotto una trave la notte del terremoto. Ecco, sua madre lo ripete sempre- se il marito non l’avesse tradita, se lei non se ne fosse andata da Roma, Olivia sarebbe ancora viva. La storia che Caterina racconta è fatta di piccole cose, di una vita che va avanti perché la vita è fatta così, si lascia alle spalle chi non cammina più a fianco a noi.

Ma Caterina non ha perso solo una sorella, Caterina ha perso la sua gemella, la metà migliore di lei, ha perso se stessa. Perché la morte ha preso Olivia e non lei? perché non si è attardata lei in casa, per prendere un paio di pantaloni per Marco? E’ il senso di colpa dei sopravvissuti che attanaglia Caterina che si ritrova all’improvviso, senza gestazione, madre di un adolescente brufoloso che si fa sorprendere nella Zona Rossa che è transennata, che si ubriaca in gita scolastica, che non studia. Come si convive con un dolore immenso, quando ci si ritrova senza una madre a 16 anni, senza una figlia nel fiore degli anni, senza la gemella che già nel grembo materno aveva occupato più spazio, che era nata per prima, che era più bella, più brillante, più tutto?

La narrazione procede tra un presente difficile e i ricordi del passato, Caterina che dipinge ceramiche e tira fuori il nipote dalla Questura e flash di Olivia che prende le difese della sorella da bambine, Caterina che sente battere il cuore con un sentimento che pensava non avrebbe più provato e Olivia che aveva preparato zaino, coperta e torcia per fuggire, la notte del 6 aprile. Le macerie della città e il canto dell’assiolo, i soldati di pattuglia e un bambino in arrivo per Lorenza. Sono forti, gli abruzzesi. Non è gente che si lascia andare. Riavranno le loro case- Marco vuole che sia uguale a prima. Come tutti.

Con una prosa spoglia e di nuda poesia “Bella mia” ci parla del dolore di una manciata di personaggi per dirci dello strazio di molti, nel canto che sentiamo solo all’inizio, Aquila bella mé…te vojo revetè, c’è più che il desiderio, c’è la volontà di risorgere, di far rinascere L’Aquila, di rivederla come era prima.

Mi rammarico spesso che i nostri scrittori non siano capaci di farsi interpreti dei nostri tempi per noi, in quello che scrivono. Donatella Di Pietrantoni c’è riuscita. Ad obbligarci a ricordare quando la notizia ha perso attrattiva sulle pagine dei quotidiani.

Donatella Di Pietrantonio, Bella mia, Ed. Elliot, pagg. 186, Euro 17,50