“Quel giorno a Nagasaki” di Jackie Copleton

Ci sono colpe sepolte nelle pieghe del tempo. E a volte non basta una vita per espiarle.

“Quel giorno a Nagasaki” di Jackie Copleton

Una frase di una bambina di nove anni sopravvissuta all’attacco con la bomba atomica su Nagasaki, il 9 agosto 1945 (Avevo tanta sete, perciò cercavo un po’ d’acqua…), e un haiku giapponese di mille anni fa, che parla di amore e dello strazio di essere abbandonato, sono l’introduzione ai due temi del romanzo “Quel giorno a Nagasaki” della scrittrice scozzese Jackie Copleton che ha vissuto e lavorato come insegnante nella città giapponese colpita da Fat Boy, la seconda bomba atomica dopo quella sganciata su Hiroshima il 6 di agosto. Un romanzo che è una storia di perdita- perdita di persone care che muoiono, perdita dell’amore, perdita della propria identità nazionale, della voglia di vivere dopo tutto quello che è successo.

Stati Uniti. Un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni suona alla porta dell’anziana Amaterasu Takahashi. Anche se è in penombra, si vedono le cicatrici da ustione sul suo volto. “Avevo già visto delle ustioni come quelle, in un’altra vita”, pensa Amaterasu mentre riconosce la cadenza del sud di Kyushu. “Mi chiamo Hideo Watanabe”, dice l’uomo.

Incomincia così la storia di Ama, del marito Kenzo (ingegnere alla Mitsubishi), della loro figlia Yuko, del marito di questa e del loro bambino, Hideo. E di un uomo affascinante, il medico Jomei che era stato il grande amore di Yuko- lui l’aveva sedotta quando lei aveva solo sedici anni. La voce narrante è quella di Ama, che però è reticente, non dice tutto subito, ci lascia indovinare che ci sono dei segreti, delle cose non dette sul suo passato. Ad interrompere la sua narrazione, in corsivo, la versione di Yuko della sua storia d’amore bruscamente interrotta dai genitori- che possibilità poteva avere un legame con un uomo sposato che ha l’età di suo padre? Ci sarà poi, sempre in corsivo, una lettera di Jomei, una sorta di confessione scritta prima di morire, negli anni ‘70, quando il peso della colpa lo porta a pensare che la morte di Yuko e lo sfiguramento di Hideo siano la punizione per quello che lui ha acconsentito a fare in quanto medico militare a Harbin, in Manciuria.

E tuttavia, “Quel giorno a Nagasaki” è un romanzo storico e non solo un romanzo d’amore, è il 9 agosto 1945 il giorno a cui tutto si riconduce, è l’ora in cui si fermarono gli orologi, le 11,02 del mattino, quando i bambini erano a scuola (la nonna aveva accompagnato Hideo- che cosa aveva visto Hideo in giardino quella mattina? Se se lo ricordasse, sarebbe la prova che è veramente chi dice di essere e Ama potrebbe credergli dopo averlo pianto come morto per più di quarant’anni), e Ama era in ritardo all’appuntamento che aveva dato a Yuko nella cattedrale di Urakami, l’epicentro dell’esplosione. Pikadon è la parola di continuo ripetuta per parlare di quel giorno, della bomba. A forza di sentirla diventa quasi un mantra, un mantra per assicurarci che non succeda mai più. Pika come lampo e don come tuono fortissimo, boato- è quello che gli abitanti di Nagasaki raccontano di aver visto e sentito. Un lampo di un’intensità accecante seguito dal boato assordante.

Il titolo originale del libro è “Dictionary of mutual understanding” e, ad introdurre ogni capitolo, c’è una parola giapponese e il suo significato, una parola che ha a che fare con la cultura, con il modo di interpretare la vita e i sentimenti, con il codice etico giapponese- un ricchissimo dizionario che traduce per noi lo spirito del Giappone. Ma il romanzo è un dizionario anche in altri sensi- Ama ha bisogno di un dizionario interiore per capire se l’uomo su cui è stata costruita l’identità di Hideo (nel 1945 era un bambino di sei anni terribilmente ferito e sotto shock e non ricordava nulla) sia veramente il figlio della figlia Yuki, così come ha avuto bisogno di un dizionario per capire la vita in America quando lei e Kenzo avevano deciso di allontanarsi dal luogo del dramma e poi, ritornando in Giappone con Hideo, per riappropriarsi delle sue memorie. E forse, dopotutto, il libro è anche un dizionario che spiega a noi Occidentali, che sappiamo tutto o quasi su Auschwitz, che cosa è stato Pikadon per i giapponesi.

Ed. Piemme, trad. Laura Bussotti, pagg. 312

Recensione a cura di

Marilia Piccone

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