“Il gioco bugiardo”, Ruth Ware

"Eravate in quattro. Avete giurato di dirvi la verità. Solo adesso hai scoperto che tra voi c'è chi mente da sempre."

“Il gioco bugiardo”, Ruth Ware

“Il gioco bugiardo”, o meglio, il gioco di dire bugie e accumula più punti chi spara la balla più grossa e riesce a farsi prendere sul serio. Un gioco che può essere molto dannoso, nonché crudele per gli altri. Una regola fondamentale: non mentire mai fra di loro, le quattro amiche che si sono incontrate quando avevano quindici anni a Salton House, un collegio femminile a sud di Londra. Kate, l’artista, Thea, la più ‘fuori di testa’ già espulsa da parecchie scuole, Fatima i cui genitori stanno facendo un anno di volontariato in Pakistan, Isa Wilde la cui madre sta morendo di cancro. Bugie vuol dire ambiguità: ecco, l’atmosfera del libro è basata sull’ambiguità, che poi è anche la cifra stilistica di Ruth Ware di cui abbiamo già letto “La donna della cabina numero 10”, su una tensione narrativa che posa sui quesiti- che cosa è successo quell’anno, di così grave da far sì che le ragazze abbiano lasciato la scuola all’improvviso? Qualcosa che adesso, a diciassette anni di distanza, riaffiora (letteralmente) e Kate (l’unica che viva vicino ancora vicino al collegio) abbia mandato uno stringato messaggio alle amiche, un grido di aiuto, quasi una parola d’ordine che contiene l’imperativo di accorrere subito: “ho bisogno di voi”.

Una dopo l’altra arrivano a Salten, da Kate che abita al Mill, un mulino ad acqua dove già abitava suo padre (un pittore che insegnava arte al collegio), un edificio di grande fascino decadente che ora è più che mai in cattive condizioni e sta sprofondando, a mano a mano che il mare si mangia la costa e la marea avanza verso l’interno, tanto che a volte si arriva a guado alla soglia del Mill, tanto che spesso salta la luce, quando l’acqua bagna i cavi. Arriva Isa con la sua bambina di sei mesi. Arriva Fatima che ora indossa l’hijab ed è una musulmana osservante. Arriva Thea, magrissima e alcol dipendente. E’ successo che è affiorato un osso umano dalla terra che ora è rosicchiata dal mare.

La trama si srotola tra passato e presente- allora ognuna delle quattro aveva un qualche problema, la sorte le aveva ravvicinate, l’amicizia era diventata uno di quei sentimenti che si radicano profondamente ad un’età in cui solo l’amicizia può salvare dall’assenza di una famiglia. Il padre di Kate, l’artista Ambrose, era stato una figura di padre sostitutivo per tutte loro e per Luc, il fratellastro di Kate. Meglio di un vero padre perché dava affetto e ospitalità nei fine settimana al Mill e non imponeva regole. Nei ricordi del passato Ambrose è circondato da un alone di fascino, con tutti quegli schizzi che faceva di loro quattro, più o meno vestite. Adesso, nel presente, è un fantasma circondato dal mistero della sua scomparsa su cui circolano voci maligne e accusatorie in paese. Come mai sono tornate proprio ora le tre amiche di Kate? Per una cena di ex alunne a Salten House? E perché per la prima volta prendevano parte ad una cena dopo tutti quegli anni?

La vicenda è incalzante, la verità ci viene detta a piccoli bocconi, viene smentita, viene corretta e ricorretta. Dubitiamo, insieme alle amiche. Una di loro sta ancora facendo il gioco delle bugie? Tutte loro hanno fatto il gioco, con le persone a loro vicine, per diciassette anni? La rivelazione avviene come un’esplosione in un finale da tragedia. E noi ci interroghiamo sul valore dell’amicizia e su quale sia il limite che neppure l’amicizia dovrebbe chiederci di superare.

Del ‘giallo’ psicologico di Ruth Ware ammiriamo la finezza e l’eleganza, prima di tutto. Quel certo non so che di classico che ci fa pensare ad Agatha Christie- pochi personaggi, ben caratterizzati. Piace l’alternanza di tempi della trama, la descrizione dell’instaurarsi del legame tra le amiche, l’autoanalisi di Isa che è il ‘punto di vista’ della vicenda. Piacciono poi due personaggi che si impongono costantemente alla nostra attenzione: il Mill e la piccola Freya, la bambina di Isa. Questa, con i suoi occhioni azzurri, la sua voracità che identifica la perfetta felicità con il seno della mamma, sembra essere il simbolo dell’innocenza perduta. E il Mill, con la natura straordinaria e mutevole che lo circonda, soggetto ideale per qualunque pittore, diventa invece simbolo di un passato in cui c’è qualcosa di marcio sotto l’alone di bellezza, qualcosa che deve essere radicalmente rimosso.

Ed. Corbaccio, trad. V. Perna e Sara Puggioni, pagg. 426, Euro 17,90

Recensione a cura di

Marilia Piccone

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