SILVIA MEZZANOTTE

Intervista alla cantante modenese (d’adozione) recente protagonista del concerto di capodanno in città

SILVIA MEZZANOTTE

Silvia Mezzanotte, bolognese d’origine, modenese d’acquisizione: da quanto tempo vivi a Modena e che rapporto hai con la città della Ghirlandina che si affaccia sulla via Emilia?
   La realtà è che oramai vivo in pianta stabile a Bologna: ho trascorso in provincia di Modena, in una frazione di Vignola, il periodo delle scuole medie e dell’istituto magistrale, e da quelle parti sono rimasta fino a sei anni fa. All’ombra della Ghirlandina, dunque, si sono susseguiti gli anni della mia adolescenza fino a quelli della maturità: per questo, quando mi definisco “modenese di acquisizione”, intendo dire che a Modena ho vissuto la mia gavetta artistica e il momento della mia fioritura professionale. Modena mi ha sempre fatto sentire molto apprezzata e ben accolta, tuttavia, essendo i miei genitori originari di Bologna, ho deciso di trasferirmi nuovamente lì per essere vicina a loro.

Modena e l’Emilia Romagna in genere hanno dato un grande contributo alla canzone italiana: quale pensi sia stato il segreto tutto musicale di questa regione così produttiva e in che modo ha influito sulla tua carriera il fatto di appartenervi?

   L’Emilia Romagna è una regione molto gaudente: che si tratti del buon cibo, del buon vino, della convivialità o della percezione e ricezione di qualsiasi forma d’arte, questa sua innata propensione alla solarità ha reso possibile la fioritura di tante buone opportunità di fare musica all’interno di spazi più o meno convenzionali, divisi fra città e rispettive province, consegnando ai giovani che abbiano voglia di sviluppare questa loro innata predisposizione, la possibilità effettiva di attuarla. Io sono stata fra quelli, e tanti anni di gavetta per locali e piano bar, esibizioni con gruppi dal vivo e serate accompagnata da orchestre mi hanno permesso una formazione che in molte altre regioni d’Italia, meno reattive allo scenario musicale, non mi sarebbe stata ugualmente garantita. La realtà è che il mondo discografico o televisivo non passano di qui (le case discografiche, infatti, si dividono fra Milano e la Capitale) ma la creatività invece si, e l’Emilia Romagna è in questo madrina di artisti dei generi più disparati: da cantautori come Dalla e Guccini a gruppi come gli Stadio passando attraverso i meno frequenti nomi di interpreti femminili, tra cui figura anche il mio.

I modenesi ti conoscono anche per Labomusica, la scuola di canto che ti vede fra le sue massime punte di diamante: come e quando nasce questo progetto e quale e quanto è grande il tuo contributo artistico al suo interno?

   La vicenda di Labomusica è nata qualche anno fa ed ha una storia lunga e complessa, segnata purtroppo dalla scomparsa del suo direttore, Carlo Ansaloni. Questa improvvisa mancanza ha rallentato necessariamente la mia operosità al suo interno, spostando la mia attenzione all’attività di masterclass in giro per l’Italia. Posso tuttavia dare un’anticipazione a riguardo: il progetto della scuola di canto è infatti sul punto di ripartire in una seconda edizione che vedrà coinvolta anche l’amministrazione comunale, distaccandosi così dalla sfera “privata” su cui l’istituto si era orientato nel corso del suo primo allestimento.
Il mio contributo al suo interno sarà quello di garantire ai giovani talenti iscritti la possibilità di avere accesso ad una personalità artistica che all’ambiente musicale contemporaneo appartiene in maniera precisa e attraverso un proprio specifico excursus, consegnando nelle loro mani una visione obiettiva e il più possibile responsabile delle prospettive di vita che il canto offre e trasmettendo una metodologia d’insieme che li prepari ad affrontare qualsiasi audizione, musical o spettacolo televisivo. L’obiettivo primario della scuola è stato e sarà, più in generale, quello di suscitare una maggiore consapevolezza del proprio strumento vocale, buon proposito che può animare tanto l’interprete con aspirazioni professionali quanto la casalinga intonata desiderosa di “esibirsi” per una semplice serata in famiglia.

La grande fama è arrivata per te con i Matia Bazar, di cui sei stata – in ordine cronologico – la terza interprete: un aggettivo per definire chi ti ha preceduto (Antonella Ruggiero e Laura Valente) e chi ha invece preso il tuo posto (Roberta Faccani).
   Antonella: sublime. Laura: rock. Roberta: diversa.
Antonella  è stata e rimane – non lo dico con rammarico ma con molta consapevolezza e con altrettanta ammirazione – l’Icona con la “I” maiuscola del mondo Matia Bazar. Pur in totale coscienza di quello che è stato il mio ruolo all’interno gruppo e del mio contributo artistico suffragato da un recupero della dimensione di visibilità e popolarità dei Matia Bazar, nel cuore so con chiarezza che Antonella resta e resterà per sempre la loro massima interprete e figura di richiamo. Lo dico anche da fan di Antonella, e forse è pure questa una delle motivazioni che mi ha spinto a decidere di lasciare i Matia, avendo raggiunto con loro il mio massimo, internamente alla mia dimensione.

È mai stata avanzata l’idea di un progetto che vi veda coinvolte eccezionalmente tutte e quattro assieme? Ameresti la trovata?
   Assolutamente sì. Non ho mai nascosto che mi piacerebbe moltissimo duettare con Antonella: la amo da sempre, e le nostre vocalità sono simili in certi punti e molto diverse in altri passaggi. So che Antonella ha in atto una serie di progettualità che la rendono, per così dire, irraggiungibile, ma se dovessero farmi una proposta simile io ci starei eccome, e con grandissimo piacere. Pur nelle diversità canore e interpretative che ci contraddistinguono, ci sono un paio di valori comuni che riguardano tutte e quattro noi: per poter appartenere al mondo Matia, infatti, è necessario essere in possesso di caratteristiche vocali di grande virtuosismo e di massimo rigore e professionalità. E questo è, nella mia come nelle loro carriera di artiste, un marchio che ci appartiene, con tutto l’amore che porta con sé. Riunire tutte e quattro le vocalist, pertanto, sarebbe un progetto fantastico. Difficile da realizzare, certo, ma assolutamente fantastico.

Quali sono, nell’estesissimo repertorio dei Matia Bazar, i pezzi a cui ti senti più legata e su cui più ami esibirti? Quali invece – se ce ne sono – quelli di cui temi maggiormente  il peso dell’eredità passata?
   Si tratta di due brani che rispondono ad entrambe le domande: “Cavallo bianco” e “Vacanze romane”. Cavallo bianco è in assoluto la canzone del mondo Matia che amo di più, quella che porto con me più volentieri e che cerco di interpretare a modo mio. E’ la canzone che mi ha consentito di entrare a far parte dei Matia: il mio provino si è infatti svolto proprio sulla sua base, e ricordo ancora Piero Cassano che, mentre io la cantavo in studio di registrazione, cercava sulla chitarra le note che stavo raggiungendo. Si tratta tuttavia un pezzo così fortemente virtuosistico da rendere difficile il non riportare alla memoria la sua prima versione. Lo stesso discorso vale per “Vacanze romane” che è la canzone che più mi richiedono all’estero, essendo oramai divenuta un vero e proprio evergreen della musica internazionale.

“Brivido caldo”, uno dei brani più noti fra quelli del tuo repertorio-Matia,  può essere a ragione considerata la “Vacanze romane” degli anni 2000?
   “Brivido caldo” è una canzone che ha ottime potenzialità ma non gode delle stesse chances di “Vacanze Romane” e del suo testo di una modernità assoluta a cui forse non tutti, complice la melodia del brano, hanno prestato accuratamente ascolto. Quella di cui parla è infatti, a tutt’oggi, una Roma attualissima, con le risorse di cui dispone e, insieme, i suoi punti di debolezza. Aldo Stelletta, bassista e autore dei testi dell’epoca, era un genio da questo punto di vista. “Brivido caldo” ha delle parole che io sì amo molto, ma che sono indubbiamente molto più semplici e per questo non rapportabili a quelle della “Vacanze romane” che tutti noi ricordiamo.

I giudici di “Music Farm”, reality musicale di Rai2 antesignano del fortunato “X Factor”, pur riconoscendo le tue indubbie doti vocali ti hanno spesso rimproverato una certa freddezza comunicativa che è un po’ la “spada di Damocle” di tutte le grandi cantanti tecniche. Credi sia possibile coniugare sentimento e virtuosismo? Si può essere, in altre parole, interpreti introspettive e puntualissime esecutrici?
   Io penso di sì. Music Farm, che pure non è stata, dal punto di vista personale, l’esperienza più bella della mia vita, mi è servita anche per questo: quando sono uscita di lì, infatti, ho rivisto con calma tutto quello che avevo fatto, riascoltando con interesse tutte le critiche che mi erano state mosse e a partire dalle quali ho iniziato a lavorare su me stessa. Da quel momento ho così cercato di variegare i miei progetti solisti realizzando sia brani incentrati unicamente sul messaggio interpretativo, del tutto spoglio di acrobazie vocali, sia melodie in cui risaltasse quella parte tecnico-virtuosistica che il pubblico tanto apprezza. Anche nel mio live – come in quello che ho portato a capodanno in piazza Modena – si verifica questo connubio fra i due aspetti: ed è così che accompagno la platea con un filo di fiato all’Ave Maria di Gounot, della quale ho scritto io stessa un testo in italiano, desiderosa di farmi spazio in quella preghiera, o porto per mano i miei ascoltatori raccontando loro un’intensa storia d’amore, come con “La Cura” di Battiato, in assenza di qualsiasi virtuosismo. Quindi sì, io penso che questo connubio possa avvenire e che per realizzarlo occorrano grandissimo equilibrio, forte capacità di controllo e un sviluppato senso di autocritica.

Nel 2008 esce “Lunatica”, il tuo ultimo album: titolo autobiografico o sottile provocazione per raccontare la tua versatilità vocale e l’eterogeneità del tuo repertorio in cui musica pop e atmosfere jazz si fondono garbatamente?

   Sono vere entrambe le cose: lunatica perché un po’ lo sono tutte le donne e un po’ lo sono anche io. C’è un aspetto pubblico che è quello di grande apertura caratteriale: non esiste divismo in me e se mi rendo conto di avere creato barriere me ne dispaccio molto. Ci sono però anche momenti nei quali devo chiudere la porta, avvertendo la necessità di stare da sola e arrabbiandomi molto con me stessa a causa della mia forte propensione all’autocritica: ho un giudice interiore che non mi perdona mai nulla e devo continuamente combattere con lui. E’ questa la mia parte più “lunatica”, quella che rivelo generalmente solo a certe persone. E’ una parte un po’ triste, che ha voglia di piangere e di gridare e che spesso è meglio tenere nascosta. Ma questa malinconia che ogni tanto mi accompagna è anche il luogo in cui nascono le cose più belle, quello a partire dal quale si possono recuperare i migliori spunti vitali per riemergere e dare nuovi slanci al proprio pubblico, che si tratti di canto o di composizione.

Durante la preparazione di quest’album e, più in generale, nel corso della tua carriera, quali sono state le tue principali muse ispiratrici?
   Faccio una premessa doverosa: io sono nata con un’ipersensibilità caratteriale tanto accentuata da portarmi ad essere una persona di una timidezza sconvolgente. E’ impossibile immaginare, vedendomi sul palco, l’introversione di bambina che mi accompagna e che mi caratterizza. Solo i miei genitori e mia sorella lo sanno: quando mi “esibivo” in casa, ad esempio, facevo stare la gente fuori dalla camera se proprio volevano sentirmi cantare. Pur amando molto l’idea di cantare, quindi, non avrei mai immaginato di poterne fare una professione. Tuttavia mi sono accorta presto del fatto che se cantavo mi ascoltavano. Ed è stato così che interessandomi alle voci femminili straniere e italiane, tentando di imitarle, leggendone le biografie e scoprendone le storie e i tormenti, è nata in me una consapevolezza, un amore maturo per la musica che mi ha permesso di andare oltre la mia timidezza e di tradurla in sensibilità artistica e in coscienza professionale. Le mie muse ispiratrici sono quindi state, fin da subito, le grandi cantanti femminili di ogni parte e genere musicale: da Mina a Mia Martini passando attraverso voci  etniche come Amalia Rodriguez ed Édith Piaf fino ad arrivare a Ella Fitzgerald e alle classiche del jazz, senza trascurare le interpreti più moderne, come Annie Lennox. Il loro modello mi ha lentamente ed inesorabilmente spronata ad affrontare il pubblico: ricordo, a tale proposito, che uno dei primi palchi su cui ho iniziato a esibirmi è stato quello del ristorante “La Fazenda” di Modena, arrivando di lì fino ai più importanti.
È dunque grazie a queste meravigliose vocalità e alla mia passione nei loro confronti che è maturata la voglia di realizzare “Regine”, uno spettacolo dal vivo in cui ho riunito contrabbasso, batteria e pianoforti per omaggiare queste grandi dive che hanno così profondamente e inconsapevolmente influito sulla mia formazione vocale, consentendone il debutto. Ma non si tratta solo di cantanti di professione: nella mia crescita umana ed artistica hanno infatti dato il loro contributo anche personalità del calibro di Anna Magnani e Marilyn Monroe, non propriamente conosciute per un ruolo di protagoniste nello scenario musicale. L’idea di base è stata quella di prendere le canzoni di ciascuna interprete per spogliarle e rivestirle come se fossero abiti miei, inserendo qua e là qualche piccolo aneddoto per incuriosire il pubblico sul loro percorso e raccontare in che modo esso si è intersecato con il mio. “Regine” è quindi una sorta di racconto musicale in sette lingue che diventa, a ben vedere, anche il resoconto di tutta la mia esistenza.

La regina delle regine?
   Va a periodi, ma negli ultimi anni sono stata molto legata ad Annie Lennox, anche perché è una contemporanea e perché ha saputo coniugare lo spessore con lo spettacolo in modo sempre credibile, che fosse avvolta in un boa piumato sulle note di un pezzo apparentemente leggero come “There must be an angel” o in totale sobrietà di fronte a progetti di risonanza mondiale come “Peace One Day”. Questo in Italia risulta – ahimè – molto difficile. Pare che qui le due strade siano inconciliabili, divise come sono fra quella di chi è destinato a fare musica colta e componimenti figli del grande cantautorato, come nel caso della Mannoia, e quella di chi è invece designato a fare cose più leggere, senza possibilità di accesso da una categoria all’altra. Io amo invece l’idea di poter entrare ed uscire con leggerezza da una situazione di tipo cantautorale ad una di più lineare spettacolo.
Nel mio live mi piace cambiarmi d’abito e rivelare curiosità sulla mia esistenza scherzando e ridendo con il pubblico ma introducendo anche, al contempo, alcuni degli elementi di maggiore profondità della mia vita: quando porto in scena l’Ave Maria di Gounod, per esempio, mi metto totalmente a nudo, raccontando le mie fragilità e la mia storia di credente cresciuta all’interno di una famiglia laica che mi ha tuttavia sempre lasciata libera di fare quel che più volevo fare, in un’atmosfera di rispetto assoluto. E’ questo, credo, il modo migliore per facilitare la perdita della distanza che spesso può instaurarsi fra chi sta sopra e chi sta sotto il palcoscenico. Ed è questo l’aspetto che più si coglie quando incontro localmente il mio pubblico di ascoltatori.

Quello che hai lanciato dal palco di Piazza Grande durante il concerto del 31 dicembre è stato un vero e proprio “messaggio d’amore” che il pubblico modenese ha colto e apprezzato, richiedendo più volte il bis: pensi che la musica italiana sia davvero così in crisi come solitamente la si dipinge?
   Ad essere in crisi non è l’entusiasmo: sono la discografia e la vendita dei dischi, semmai. Lo sono al punto tale da farmi essere serenamente orientata sull’idea che, nell’arco di breve, la musica sarà venduta soltanto on line, con la creazione di cd protratta esclusivamente per gli amatori del genere. E a quel punto chissà che non torni di moda il vinile.
I talent scout oramai non esistono più, ci sono piuttosto una serie di trasmissioni televisive che portano avanti un certo tipo di indirizzo musicale, esclusivamente orientato al mondo giovanile. Quando poi quest’ultimo, o l’uditorio dei meno giovani, si ritrova ad un concerto in piazza di fronte ad un artista che ha un proprio background musicale ed un passato di tanti anni di lavoro, l’entusiasmo diventa palpabile così com’è successo la sera di capodanno a Modena. Io sto cercando di proseguire il mio percorso su una strada che non mi porta tanto nelle radio quanto nei teatri, con una discografia conseguente a questo tipo di progettualità. E in alternativa mi oriento anche su contenitori televisivi che mi permettano di cantare in una dimensione di qualità e con musica dal vivo, seppur con un audience inferiore rispetto a quello di trasmissioni serali o talent show come “Amici”, ma potendo mostrare le mie doti di interprete e di autrice.
E  poi c’è il live, che è il modo che preferisco per apprezzare la gente, identificarmici e far si che essa possa identificarsi con me. Il concerto di Modena è stato, in questo senso, un vero e proprio balsamo di vitalità.

Un consiglio, o meglio, un non-consiglio per i giovani modenesi che hanno la musica nel sangue: ci sono esperienze svantaggiose o cattive abitudini e passaggi che, potendo, è bene evitare per chi desidera intraprendere il tuo stesso percorso?

   Consiglio di evitare di presentarsi ad una audizione con un brano che emotivamente costringa all’impegno totale delle proprie potenzialità: è bene prendersi meno rischi e scegliere canzoni che lascino un minimo di vantaggio sia dal punto di vista emotivo, sia per l’estensione del canto, assicurandosi così che l’emozione non intacchi la propria personalità vocale. L’altro consiglio sostanziale è quello di non copiare. Mai. È sempre bene evitare di portare brani o situazioni musicali che possano ricordare qualcosa di preesistente: per bravi che si possa essere, questo finisce per mettere gli esecutori  nella categoria degli imitatori, anziché in quella degli aspiranti cantanti di professione.