NICOLAS BONAZZI

Stradanove incontra uno dei più promettenti cantanti della Nuova Generazione di Sanremo 2010

NICOLAS BONAZZI

(29/04/10) A quattordici anni la sua prima chitarra acustica e a diciassette il primissimo gruppo, con il via alle esibizioni nei locali proseguite poi da solista sulle note dei classici del blues e del soul internazionale. Dieci anni più tardi, ventisette candeline spente e in tasca una laurea in “Scienze della comunicazione pubblica, sociale e politica”, è la giuria di Sanremo Academy a volerlo in gara sul palco dell’Ariston per il Festival 2010. A due mesi esatti dalla conclusione della kermesse musicale che più conta nell’Italia che canta, Stradanove.net incontra Nicolas Bonazzi ascoltandone il percorso artistico e curiosando fra gli ingranaggi e i retroscena della macchina sanremese.

Nicolas Bonazzi, classe 1982, bolognese di origine controllata con un’incontrollabile passione per la Grande Mela. Qualche cenno sulla tua storia di artista emergente pre notorietà?
   Fondamentalmente, sono uno che ha sempre sperimentato con la chitarra ed il pianoforte nella propria camera da letto nonostante il mio essere appena un po' fuori dalla bedroom generation. Quando ero adolescente e vivevo le litigate o le piccole-grandi “tragedie” quotidiane, la musica era un aiuto imprescindibile, un'autentica modalità di sfogo, di racconto, di divertimento: la possibilità di riordinare tutto quello che mi capitava aprendo le porte agli impeti e descrivendo qualsiasi tipo di situazione o sentimento, d'odio o d'amore che fosse. In quello stesso periodo, con il mio gruppo,  iniziavo a sperimentare anche il rapporto live di fronte alle prime piccole porzioni di pubblico. Erano locali modesti, di Bologna e della limitrofa provincia, ma capivo che il solo fatto di esibirsi per qualcuno rappresentava già un avvenimento significativo. Per altro, fin da bambino ho sempre coltivato il desiderio di cantare: quando mi capitava di rimanere a casa da solo il canto era il mio segreto, mentre tentavo di capire cosa la voce potesse consentirmi di fare. Nonostante ciò, ho espresso relativamente tardi quest'esigenza: la mia strada con il gruppo è infatti cominciata nelle vesti di chitarrista, non nei panni di cantante. Solo in un secondo momento ho fatto un passo avanti manifestando il mio desiderio di cimentarmi anche nel canto ed iniziando ad esibirmi su un paio di brani per serata. Ricordo che il primo pezzo che interpretai fu “The dock of the Bay” di Otis Redding.


Il web ha dato una svolta corposa alle dinamiche del mercato discografico, talvolta penalizzando la qualità in favore di una quantità sovrabbondante, talaltra offrendo chances provvidenziali, inattuabili in passato. La tua partecipazione a Sanremo giovani, ad esempio, pare ricollegarsi a quest’ultima circostanza: ci racconti com’è andata?
   Devo molto alla Rete perché quest'anno l'unica modalità per partecipare alle selezioni di Sanremo  nella categoria “nuova generazione” avveniva tramite Web: è stato così, venendone a conoscenza, che ho deciso di iscrivermi dopo aver letto attentamente il regolamento ed essermi preoccupato di predisporre qualsiasi elemento il bando richiedesse. L'altra novità era rappresentata dalla possibilità di un ascolto anticipato di tutte le canzoni in gara, ancor prima che la giuria ne avesse decretato i finalisti: credo di ricordare che sul sito della Rai ci fossero all'incirca un migliaio di canzoni fruibili. Nel mio caso poi, persino la scoperta della presenza del mio nome fra la rosa dei finalisti è avvenuta on line: erano le 16:00 di quel pomeriggio quando, collegandomi, ho scoperto di essere fra quelli ed ho visto comparire il mio nome per primo nell'elenco dei finalisti. Che dire: un po' shoccante. Internet garantisce potenzialità molto vaste e rappresenta un'opportunità di enormi dimensioni per chiunque, potendo persino sperimentare innovative modalità di marketing e di visibilità. E' sufficiente pensare al caso di Youtube, grazie ai cui video sono nate celebrità estemporanee e seguitissime, molto apprezzate in determinati ambiti. La contropartita risiede però nel numero sempre crescente di utenti che si riversano sulla Rete assieme alla loro musica, ingigantendo l'offerta senza controllo. Rispetto a ciò, tuttavia, il mio è ugualmente un atteggiamento di fondamentale ottimismo, convinto come sono che la musica di qualità possa e debba sempre avere la meglio. Certo, nel sottobosco di novità e talenti emergenti senza sosta, è necessario stringere un po' i denti e dare prova della propria capacità di resistenza artistica e caratteriale.


Il Festival della canzone italiana vissuto dall’interno: qual è la giornata-tipo di un cantante in gara? E quale il fermento del dietro le quinte, la tensione delle prove, l’impatto con la gente della cittadina ligure e quello con il pubblico di una platea tanto autorevole?    E' un mondo completamente a sé stante, un circo folle, una barca, una dimensione totalmente parallela: in quella settimana la città si trasforma, ogni equilibrio e' alterato e tutto è assolutamente focalizzato sul Festival, mentre il resto non conta. C'é un nuovo centro gravitazionale, insomma, ed è quello. E tutto è molto diverso da come potevo immaginarlo da casa: spassoso e anche un po' meno ingessato oltre che più piccolo nelle dimensioni. La giornata tipo di un cantante segue il filo conduttore della follia: sono ore molto divertenti e, al contempo, logoranti, ma sempre piene di stimoli. E' quasi una sorta di voluminosa fiera, perché oltre alla manifestazione in sé esiste una consistente concentrazione di lavoro condotta dai discografici, dalle radio e dalla stampa che assicurano agli artisti l'opportunità non-stop di volare da una postazione all'altra a rilasciare interviste o fare interventi radiofonici in diretta. Si tratta, in altre parole, di un'energica attività di promozione della propria musica, che è anche uno degli aspetti più significativi di tutta la manifestazione. Infine ci sono le prove con l'orchestra durante il pomeriggio e, la sera, il momento dell'andata in onda: a quel punto, quando tocca, tocca.


Che voto daresti alla  sessantesima edizione del Festival di Sanremo, ai tre finalisti (Scanu, Pupo/Filiberto, Mengoni) e alla sua conduttrice?
   Paradossalmente, avendo vissuto Sanremo per la prima volta come concorrente in gara, attraversato da un'emozione così impattante e totalizzante, non ho avuto il tempo materiale di posare uno sguardo attento sul Festival, al contrario delle persone da casa. Questa trascuratezza nell'osservazione è stata in parte casuale ed in parte voluta, in vista del mantenimento di un cerco distaccato: vivendo l'evento on stage, infatti, avevo l'impressione che si trattasse di qualcosa di più tranquillo, informale, mentre le immagini televisive mi avrebbero aperto gli occhi sul fatto di esserci dentro per davvero. Questo è stato forse il mio migliore meccanismo di autodifesa. In ogni caso, pur non avendo seguito lo spettacolo su piccolo schermo, sono stato ugualmente testimone di commenti molto incoraggianti in merito all'organizzazione complessiva del Festival e alla sua conduzione. Al posto di un voto vero e proprio, darei più volentieri all'equipe sanremese un suggerimento sincero facendo un appello sentito affinché ai giovani possa essere riservata, per le prossime edizioni, una maggiore visibilità. Lo spazio che ha riguardato le nuove proposte di quest'anno, infatti, mi è sembrato essere stato un po' in pericolo: ci hanno fatto cantare abbastanza tardi. E' importante, tuttavia, per la musica e la sua “riproduzione”, che la nuova generazione venga data in pasto al pubblico in un tempo in cui quest'ultimo possa ben apprezzarla e digerirla. Per quanto riguarda i finalisti, esisteva un televoto, e Sanremo è anche un po' lo specchio dell'Italia contemporanea. Se il popolo dei televotanti ha ritenuto che dovessero essere quelli i tre finalisti, non si può che concordare, prendendone atto. Su quel palco ogni cantante e musicista offre il proprio impegno agli spettatori con grande dignità, pertanto è bene che possa giocarsi al meglio la propria partita. Quanto alla conduttrice, ho avuto modo di incontrare Antonella Clerici una sola volta, salendo sul palco per la mia esibizione: credo abbia retto bene la situazione ed il compromesso fra spettacolo e musica intrinseco alla khermesse. Per di più, penso che il suo essere stata in grado di accaparrarsi un risultato significativo in termini di ascolti sia già di per sé una garanzia del fatto che la musica proposta possa essere arrivata ad un cospicuo numero di orecchie.


Il brano con cui ti sei presentato all’Ariston, “Dirsi che è normale”, possiede, tanto nel canto quanto nella sua sezione strumentale, un evidente richiamo alle sonorità pop d’oltreoceano: a quali artisti sei solito ispirarti nel concepire ed interpretare i tuoi pezzi?    Le influenze sono tantissime e ho avuto delle fasi musicali della vita in cui sono stato fan sfegatato di alcune personalità rispetto alle quali ho maturato quasi momenti ossessivi, come per Tracy Chapman, cui ho anche dedicato un tributo nell'album. In generale, subisco da sempre il fascino delle vocalità emotivamente cariche e comunicative nel timbro ancor prima che grazie alle parole. E sì, sono un grande fan della musica d'oltreoceano, del soul, del blues e di tutti quei generi musicali in cui la voce e la sua modulazione e carica espressiva rivestono un ruolo centrale. Sin da piccolo ho ascoltato di tutto, partendo dalla musica che assorbivo involontariamente dai miei genitori, da Antonello Venditti a Fabio Concato, fino a quello che è stato il grande amore artistico che ha dato una svolta alla mia prospettiva di fare musica: Carmen Consoli. Per altro, la stessa sera della mia esibizione a Sanremo, Carmen era ospite all'Ariston, e la casuale vicinanza dei nostri camerini mi ha regalato l'occasione di trascorrere assieme a lei l'intera serata. E' stato il coronamento di un sogno.


Della stessa canzone sanremese è appena nato il video, edito  da pochissimi  giorni e realizzato quasi a mo' di corto: cosa descrivono le sue immagini e quale taglio si è scelto per la trasposizione del brano su schermo?    Trasporre un brano su uno schermo è sempre un'operazione rischiosa: in generale, quando si ascolta una canzone, la mente elabora autonomamente e in maniera accidentale una successione di immagini che ricostruiscono una sorta di sequenza-video. Il pericolo che si corre è quindi quello di dare origine a qualcosa che non corrisponda all'immaginario degli ascoltatori o, ugualmente, non apporti nulla di nuovo e di positivo al pezzo. La nostra scelta, concordante all'idea di Gaetano Morbioli, registra autorevole di cui ho grande stima, è stata quella di optare per un clip che non fosse un semplice playback del cantato o il solito video amoroso basato su quello che la canzone poteva immediatamente suggerire ma, piuttosto, una riflessione sul concetto di “normale”, in richiamo al titolo del brano. Così' mi sono interrogato sul senso profondo di questo concetto, persuadendomi del fatto che la normalità sia quello che noi siamo disposti a perdonarci e ad accettare del nostro passato. Quello che, tutto sommato, possiamo dirci “che è normale” nonostante in realtà non lo sia affatto, ma per il flusso della vita e per l'esistenza contingente più non importa. Nel video questo aspetto è affrontato proprio in relazione ad una storia: abbiamo cercato di universalizzarlo e di trovare una trama che facesse pensare all'esistere, nel quotidiano di ciascuno di noi, di scelte spesso fuori da ogni limite che con il tempo ed il “senno di poi” finiscono per sembrarci “normali”, convincendoci che le cose dovessero andare così come sono andate. Il racconto è quello di una donna, una mamma, che dopo aver scoperto il test di gravidanza della figlia, allarmata per la sua giovane età e temendo il ripetersi della propria esperienza di madre precoce, sfoglia il suo vecchio diario di adolescente esplodendo in un pianto che, nato dall'ansia e dal timore, si traduce ben presto in una serena e liberatoria commozione potendo, così, “dirsi che è normale”.


I testi del tuo album parlano d’istinto, d’incontri, di vincoli e di distacchi: il sottofondo tematico dell’amore è dunque per te più un punto di partenza o una conclusiva base d'arrivo?    Credo sia un punto di partenza, per altro non facile: quando si parla di amore, cadere nella banalità è un passo molto semplice. Ma l'amore rimane, per la composizione testuale, uno dei sentimenti più stimolanti e maggiormente corrispondenti all'urgenza espressiva e comunicativa dei più. Anch'io non lo perdo mai di vista: mi piace esplorare i meandri dell'emotività e dell'istinto, anche quello fisico, inteso come incontro fra corpi. E' qualcosa che considero molto reale ed è forse uno degli aspetti che più ci ricordano la nostra natura animale, il nostro venire da una condizione poco logica e molto istintuale della quale mi piace parlare.


Nel brano “Non è pianeta per noi” canti “non siamo attori né figuranti, non è un reality show”: forzando un po' con le parafrasi, sembreresti non rimpiangere la mancata partecipazione a quegli stessi talent che, tuttavia, hanno garantito vittorie inconfutabili ed alti piazzamenti in classifica ad alcuni tuoi giovani colleghi. Lo confermi?    Quando sono usciti i primi reality show in Italia io ero in prima fila, mi divertivano e nutrivo persino con un certo interesse sociologico nei loro riguardi, anche perché inizialmente era in quel modo che ce li spacciavano. Con il passare del tempo la situazione si è un po' estremizzata. Non ho nulla contro i reality ed i talent, anzi, mi dispiaccio del fatto di non aver avuto l'opportunità di prendervi parte. Tuttavia, credo che esista una serie di rischi legati alla partecipazione a questo genere di trasmissioni televisive che offrono sì la possibilità a chi ha talento di farsi notare, pagando però spesso il prezzo della standardizzazione e, talvolta, quello di una certa illusione generale.


Due registrazioni molto insolite sono le bonus tracks del tuo album: la prima, cover di “Non ti scordar mai di me”, noto tormentone estivo di una Giusy Ferreri esordiente, è una registrazione amatoriale avvenuta nel locale dei tuoi genitori. La seconda, capofila dei cavalli di battaglia di Tracy Chapman, è un rifacimento di “Baby can i hold you” presa addirittura da un viaggio su un treno in corsa. A cosa si deve la scelta di un tipo così inaspettato di pubblicazioni?    Abbiamo deciso di pubblicare queste versioni per dare un sapore di autenticità al disco, offrendo un momento di “musica rubata”, un attimo di quello che io faccio quando prendo la chitarra in mano ed inizio a cantare. Ho voluto inserire nell'album la cover di “Non ti scordar mai di me”a seguito dell'apprezzata apertura del mio canale Youtube, in cui proponevo rifacimenti di famosi pezzi pop rivisitati alla luce di una chiave interpretativa un po' diversa, più intimista: quel brano, in particolare, non è solo stato gradito dagli utenti del sito ma è divenuto uno dei motivi di maggior convincimento del mio attuale produttore, il grandissimo Claudio Cecchetto, verso cui ho enorme stima e a cui mai avrei pensato di arrivare. L'altra canzone, invece, è nata in treno, in un qualche posto in viaggio tra Bologna e Milano, in compagnia della mia chitarra e del mio inseparabile notebook.


Hai mai pensato a qualche duetto o collaborazione? Se sì, con chi ti piacerebbe realizzare un progetto a quattro mani e due voci?    Ci penso in continuazione e mi auguro vivamente di riuscire a togliermi lo sfizio di fare qualcosa, seppur piccola, insieme a Carmen: sarebbe davvero un onore averla su un mio pezzo.

È previsto l’inizio di un tour per la stagione estiva?    Al momento non sono ancora in grado di dare notizie definitive. Stiamo preparando qualcosa ma non so entro quali forme e tempi: quel che è certo è che non voglio rinunciare alla dimensione più bella ed appassionante della musica, il live, concedendomi l'opportunità di guadagnarmi, sera dopo sera, le orecchie della gente.