PAOLA TURCI

La cantautrice romana racconta a Stradanove come nascono le sue canzoni, quali sono i suoi riferimenti artistici, qual è il suo rapporto con il Web.

PAOLA TURCI

Ultimato il suo lavoro in studio con la produzione di una trilogia di dischi - “Attraversami il cuore” (2009 / “Giorni di rose” (2010) / “Le storie degli altri” (2012) - Paola Turci ha raccontato a Stradanove come nascono le sue canzoni, quali sono i suoi riferimenti artistici, qual è il suo rapporto col web. In uno "stato di calma apparente" che è anche, sempre citandola, "una forma di amore costante".

Nel tuo ultimo disco canti “le storie degli altri”: cosa le rende interessanti?

L'opportunità che ci danno: quella di scoprire i casi singoli, le persone spaiate, estrapolate dal loro contesto, dalla massa cui appartengono, dal gruppo dentro cui sono incasellate. Ciascun uomo, fuori dal mucchio, può riappropriarsi della sua identità, di un’umanità singola, sola, che spesso – come nel caso dei più poveri, degli emarginati, di coloro che non riusciamo o non vogliamo vedere – viene a mancare.  Ripenso all’immagine del film di Emanuele Crialese, Nuovomondo, con quella barca gremita di gente indistinta. E ai bisognosi in fila all’Opera San Frencesco di Milano. In tanti hanno già cantato gli "ultimi", come De Andrè con Anime Salve, perché è un tema che ci riguarda tutti da vicino. Tanto più in questa vita soggiogata dall’individualismo.

“Le storie degli altri” segue “Attraversami il cuore” e “Giorni di rose”. Questa trilogia è anche un primo bilancio artistico?

L’ho vissuta, più che altro, come una sfida: quella di fare, in un periodo così duro per la discografia italiana, e in un lasso di tempo così breve per un progetto simile (un anno presto raddoppiatosi) ben tre dischi, suddivisi per precisi argomenti. Cosa più complessa, garantisco, che comporre e cantare testi generici.

Lo hai definito un disco “anarchico”. Perché?

Abbiamo bypassato le regole e scadenze che ci si prefigge, classicamente, per la preparazione un disco. Preferendo incidere a presa diretta, e suonare session di oltre cinque minuti, dentro a un casale, con uno studio mobile, in due settimane di full immersion.

I pezzi che meglio rappresentano questa trilogia.

Le prime canzoni uscite, quelle estratte come singoli. Assieme alle ultime. Penso ad Attraversami il cuore e Piccola canzone d'amore, Il cielo sopra di noi, Le storie degli altri e I Colori cambiano. E poi, le canzoni che hanno scritto per me Carmen Consoli, Nada e Marina Rei, ciascuna col suo modo di indagare l'amore. Marina è il candore, Nada l'ironia del fiore al davanzale, Carmen quella della tristezza che passerà e “lascerà posto a qualche forma di felicità”.

Come nascono le tue canzoni? Ritualità o caos creativo?

Caos assoluto. Non sono affatto metodica, sono una che si carica, a manovella!, e che fa tutto da sola. Ci sono periodi in cui scrivo poco, un paio di canzoni e subito mi fermo, e altri in cui compongo a ritmo serrato: due settimane fa, ad esempio, ho scritto tre pezzi in mezza giornata. Sono un po’ bulimica, in tal senso. Ma sento sempre più forte il profumo della libertà di scrivere ciò che voglio. Non pensando se piacerà alla casa discografica, se lo passeranno le radio, se lo applaudirà il pubblico: è un presupposto vitale senza il quale non si è artisti, si resta mestieranti.

Nel 2009 hai composto un romanzo a quattro mani: come cambia la scrittura di un brano da quella di un libro?

È tutta un’altra storia, una dimensione diversa, divertente, autoriferita, quella del libro. Bellissima perché terapeutica, consentendoti di dare libero sfogo al tuo vissuto. E che ha poco a che vedere con la forma canzone. Come compositrice, la trovo più semplice per lo spazio illimitato che ti offre, per l’assenza di limiti fisici e di tempo.

Giorgio Gaber fra i tuoi massimi riferimenti cantautorali. Hai in caldo qualcosa che lo riguardi?

Sì, ce l’ho. O forse ce l’avevo. O meglio ce l’avrei.  Non so proprio come coniugarlo, questo verbo avere, perché la massiccia comunicazione mediatica su Gaber, negli ultimi tempi, in occasione del decennale della sua scomparsa, ha fatto un po’ sfumare il mio sogno di reinterpretarlo, di affrontarlo in chiave femminile, recuperando la sua capacità di raccontare storie aderenti al presente. Sono affezionatissima a tutto ciò che ha scritto, però, ed ascoltarlo è sempre un grande momento.

Da compositrice, e da compratrice di musica, qual è il tuo rapporto col web?

Vivacissimo. Aspetto con ansia l’arrivo di Spotify in Italia – una piattaforma gratuita di musica in streaming, nata in Svezia dove ha risollevato il mercato discografico del 30/40%  – sperando che anche da noi faccia altrettanto, che diventi la norma. Senza più interferenze decisionali da parte delle radio, ma col pubblico che sceglie ciò che vuole.

Ti rivedi nei video di Youtube? E fra i commenti di Facebook?

Certo. Ho un legame superattivo coi social network. Non morboso, s’intende, ma ci tengo e ci credo molto, all’interconnessione.

Chi monopolizza il tuo lettore mp3 in questo momento?

Sto ascoltando molti vecchi cantautori nostrani, dai due Lucio della musica italiana, Dalla e Battisti, a Franco Battiato. E poi alcuni gruppi nuovi, conosciuti proprio su Spotify, come i Fruit Pets e Bon Iver. Mentre l’ultimo disco che ho comprato, ipnotico, è "I lupi" dei Tre allegri ragazzi morti.

Il brano che, se non fossi Paola Turci, accosteresti a Paola Turci.

Stato di calma apparente. Che è la prima canzone che ho scritto.