GIOVANNI GALAVOTTI

Intervista con lo sceneggiatore del film (vincitore del David di Donatello 2010) 'L'uomo che verrà'

GIOVANNI GALAVOTTI

“L’uomo che verrà” è stato presentato in anteprima a Marzabotto nel mese di gennaio 2010 davanti al pubblico costituito dei familiari delle vittime e degli ex partigiani: quali sono state le reazioni a caldo e i loro commenti al riaccendersi delle luci in sala?
   L'anteprima vera e propria del film si è tenuta a Bologna il 15 gennaio 2010: il giorno successivo è stata la volta di Marzabotto alla presenza degli ex partigiani, dei famigliari delle vittime, dei rappresentanti dell'Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) e del Sindaco del paese. All'accensione delle luci il primo a prendere la parola è stato un ex partigiano, Franco Fontana, che con la voce rotta dalla commozione ha voluto testimoniare quanto le cose fossero realmente andate in quel modo. Il suo è stato quasi un intervento di discolpa, come se volesse giustificare se stesso e il resto dei partigiani suoi compaesani per il loro essere stati colti alla sprovvista dall'attacco nemico. Dopo questo intervento, certamente il più toccante, ve ne sono stati altri, fra cui quello di un familiare delle vittime che ha rivolto a Giorgio Diritti molti complimenti per il lavoro realizzato con estrema attenzione alla vita del tempo e alle persone coinvolte, ripetendo con evidente trasporto “Grazie, signor regista”. Parole di stima sono arrivate anche dal sindaco di Sant'Anna di Stazzema, dove nell'agosto del '44 si è consumato un massacro simile a quello di Monte Sole.  L'accoglienza, dunque, è stata ottima e ci ha ripagati delle tante energie spese per questa produzione, dandoci l'impressione generale di aver fatto qualcosa di importante per queste persone. La proiezione di Marzabotto ha rappresentato insomma la nostra cartina di tornasole, rassicurandoci rispetto al fatto di aver svolto un buon lavoro.

Il dialetto bolognese come occasione di autenticità: di chi è stata l'idea e com'è stata accolta dal cast e dal pubblico?
   L'idea è stata del regista, Giorgio Diritti, che ha contattato i membri del cast appena una decina di giorni prima dell'inizio delle riprese proponendo loro questa variazione sul copione iniziale. Molti  attori, sopratutto gli interpreti principali, che non sono originari della zona, non erano a conoscenza della tradizione linguistica locale: è il caso di Maya Sansa e Alba Rohrwacher o dello stesso Claudio Casadio, che pure è romagnolo ed è cresciuto con questi racconti. Credo che quella del linguaggio dialettale sia stata una scelta azzeccatissima: dopo un primo momento in cui si erano scritti tutti i dialoghi in italiano e le battute in dialetto erano comparse solo en passant, è improvvisamente arrivata la proposta del regista e, una volta raccolta la disponibilità degli attori, i dialoghi sono stati fatti tradurre da un signore anziano della zona, Giorgio Monetti, che ha parlato in un registratore e fatto trascrivere il parlato da suo nipote al computer. Il Signor Monetti è stato presente sul set per tutta la durata delle riprese affiancando gli attori che non conoscevano l'idioma del luogo per aiutarli a parlarlo con le giuste sonorità: quella che in molti film americani è la figura del “Dialog Coach”, insomma, è stata per noi la personificazione del “Dialect Coach”. Per altro, fra un allenamento dialettale e l'altro, quando capitava che piovesse e il terreno si facesse impraticabile e fangoso, Monetti era solito salire sul suo trattore e spianare lo sterrato ingresso alla location principale (il casolare della famiglia di Martina) per agevolare gli spostamenti degli ingombranti  mezzi del cinema.

Pur non trattandosi di un film storico è ipotizzabile che la narrazione di questa vicenda romanzata abbia ugualmente richiesto un’approfondita opera di ricostruzione degli eventi. Quali sono state le fonti essenziali cui si è attinto? E come si è proceduto alla scelta dei luoghi e dei volti rappresentati?    In tutte le fasi del lavoro c'è stata un'attenzione meticolosa  alla ricerca dell'autenticità. Non di meno per quel che riguarda la sceneggiatura, la cui stesura è stata realizzata attraverso una ricostruzione storica accurata, ricavata da testi storici e non (“Marzabotto parla” di Renato Giorgi, “Silenzio su Monte Sole” di Jack Olsen, “Storia della brigata stella rossa a Monte Sole” di Gianpietro Lippi o “Gli zappaterra” di Margherita Iannelli) e da testimonianze orali e interviste video realizzate dal regista, nel corso degli anni, agli ex partigiani. La ricostruzione storica si è dimostrata dunque necessaria per predisporre i paletti all'interno dei quali delimitare l'edificazione del racconto, prescindendo così dalla storia con la “S” maiuscola: il nostro intento infatti non era quello dir fare un film bellico o storico nel senso comune del termine, ma quello di raccontare  la vita di una comunità che ha visto la guerra avvicinarsi sempre di più, fino ad entrare nei propri cortili e dentro alle proprie case, distruggendo tutto e massacrando tutti. Oltre all'opera di ricostruzione c'è stato un lungo e particolareggiato lavoro di ricerca delle facce: visi e fisici magri,  volti scavati, bruciati dal sole. L'indagine è stata minuziosa al punto tale che, in certi casi, il giusto phisique du role poteva non bastare se accompagnato da una dentatura completamente “salva”. La stessa doverosa pignoleria si è avuta per la ricerca dei luoghi, tanto che chi conosce il cimitero di Monte Sole pensa che la scena della strage numericamente più grossa sia stata girata lì, mentre ha avuto lungo non lontano, in un'altra location dell'Appennino bolognese. Del casting e  della ricerca dei luoghi, in ogni caso, si sono occupati per lo più l'aiuto regista, Manuel Moruzzi, lo scenografo, Giancarlo Basili, e lo stesso Giorgio Dritti insieme al direttore della fotografia, Roberto Cimatti, con cui quest'ultimo ha trascorso intere giornate fra biblioteca e cineteca per consultare le foto di repertorio di quel periodo, in vista della produzione.

Greta Zuccheri Montanari, la bambina del film, è una talentuosa debuttante. Quali elementi hanno fatto ricadere su di lei la scelta finale per il personaggio di Martina?    Mi pare di ricordare che il casting iniziale sia stato fatto su circa un centinaio di bambine. Se n'è cercata una che riuscisse a parlare con lo sguardo, perchè Martina è lo sguardo, quello della guerra vista dal basso. È uno sguardo ingenuo, naive, pieno di sorpresa per tutte le cose, com'è tipico dei bambini. Sicuramente gli occhi grandi e l'espressione intensa sono stati fattori determinanti. Oltre a ciò ha avuto un peso rilevante il suo sembrare una bambina adulta in certi tratti e sfumature. Tratti e sfumature importanti perché Martina è una bambina inizialmente emarginata, umiliata dai suoi coetanei e compagni di gioco; una bambina che, in una situazione estrema come quella del massacro, spinta dal grande amore per il fratellino, riesce ad attraversare l'inferno scatenato dalle truppe naziste finendo col trovarsi sola insieme al piccolo ad aspettare una famiglia che non farà mai più ritorno. Martina è dunque una bambina che diventa subito adulta, e lo si capisce tanto più sul finale quando, facendosi mamma lei stessa, canta al neonato fratellino la ninna nanna che sua madre intonava un tempo per lei.

“Ogni tanto vengono su i tedeschi ed io non so perché sono venuti fino a qui e non sono rimasti a casa loro con i loro bambini”, racconta fuori campo la voce di Martina; “Perché i cani e gli ebrei non possono entrare, babbo? Noi in libreria facciamo entrare tutti” è invece il commento del piccolo Giosuè ne “La vita è bella” di Benigni: lo sguardo e l’emotività di questi due personaggi sono, in qualche modo, accostabili?
   Sono entrambi bambini nella guerra, ma non c'è stata una volontà esplicita di accostamento fra i due. Il film di Benigni, per altro, ha sia un'impronta più storica, essendo maggiormente descrittivo degli eventi del conflitto bellico, che un taglio assolutamente fantasioso. Il nostro riferimento specifico non è dunque stata “La vita è bella” e, pur essendoci alcuni punti in comune fra le due pellicole, i due personaggi protagonisti vivono situazioni molto diverse, in modi diversi: Martina affronta la guerra in completa solitudine mentre Giosuè è sempre aiutato dal padre, che si spende nel “raccontargliela” come fosse una favola. Qui la chiave è diversa.

Nell’incoscienza di un bambino in guerra, dunque, c'è qualcosa di più cosciente di quanto non si creda?

   Sì. Lo sguardo ingenuo di un bambino è normalmente privo delle sovrastrutture che, con il tempo, le persone si costruiscono per meglio vivere e difendersi.  E anche gli occhi puri di Martina sembrano non capire quello che le sta succedendo intorno ma, in verità, è proprio il suo lo sguardo più lucido e attento di tutti. Come quando, nel pezzo già citato del tema in classe, si chiede cosa ci facciano da quelle parti quei ragazzi tedeschi lontani dai propri cari, cogliendo l'assurdità di quei ventenni sradicati dalle loro case e mandati a massacrare altre genti inermi e indifese. Questa è la purezza, e insieme la forza, dello sguardo dei bambini: loro sono capaci di affrontare situazioni estreme con estrema determinatezza.

Orfeo Orlando, interprete del ruolo del mercante, ha rivelato nel corso di un'intervista quanto grande e realistica sia stata l'immedesimazione sul set, raccontando il reale pianto dei bambini-figuranti all'arrivo degli attori tedeschi o l'inveire degli anziani contro di loro. Il livello di partecipazione emotiva durante le riprese è stato davvero così elevato?    I bambini, il cui mondo è fatto essenzialmente di gioco, sono rimasti certo molto colpiti,  almeno inizialmente, da questi ragazzi tedeschi in divisa che sbraitavano contro di loro, strattonandoli. E le reazioni di rifiuto non sono mancate: durante la scena in cui i soldati accompagnano il prete e i fedeli verso il cimitero, ad esempio, il bambino che scappa e viene subito ripreso stava cercando di fuggire realmente, non reggendo il peso della tensione emotiva. Una ricostruzione così dettagliata e meticolosa ha infatti colpito i più piccoli ma è stata altrettanto forte anche per gli anziani, consapevoli com'erano del fatto che ogni cosa rappresentata fosse realmente successa da quelle parti. È capitato persino che durante le riprese della scena della battaglia del 28 maggio, ovvero quella che i civili avvistano dal campanile della chiesa, un signore della zona, ignaro del set, abbia preso un terribile spavento vedendo quelle divise naziste in fase di combattimento e convicendosi che la guerra fosse ricominciata: Monetti lo ha subito raggiunto per rincuorarlo dicendogli che si stava semplicemente facendo un film. Un set cinematografico, in verità, è fatto anche di lunghe attese per la preparazione delle scene e la loro ripetizione: in questi tempi filmici dilatati gli attori e i figuranti hanno avuto modo di conoscersi un po', accorgendosi che quei ragazzi tedeschi erano cosa altra rispetto alla spietatezza dei loro personaggi. Alcuni di loro erano ragazzi in Erasmus in Italia; uno degli ufficiali della Wehrmacht, quello che presiede l'ufficio nazista, è un uomo di una quarantina d'anni che vive e lavora a Bologna da molto tempo; il soldato buono che si improvvisa giocoliere è un italo-francese; l'ufficiale delle SS è invece un attore professionista che abita a Berlino, mentre altri sono attori italiani con colori e sembianze teutoniche.

Qual è stata la parte più creativa e appassionante nella preparazione della sceneggiatura? E quale quella di più difficile realizzazione?
   Siamo partiti da un primo soggetto di Giorgio Diritti che nel 1996 aveva ricevuto in regalo da Don Luciano Gherardi una copia de “Le querce di Monte Sole”, il testo da cui è germogliata l'idea del film. La sceneggiatura non è stata semplice, nei suoi vari passaggi: si è trattato di un misto di impegno creativo e difficoltà traspositive dovute alla presenza di una storia vera e di qualche personaggio storico (è il caso dei preti, del comandante di brigata Lupo, interpretato per altro da mio fratello, o della suora laica che suona il piano e canta insieme ai bambini all'arrivo dei tedeschi) insieme alla vicenda puramente inventata della famiglia Palmieri, in cui tuttavia confluiscono tutte le testimonianze lette, ascoltante e raccolte nel corso del tempo. Trovare un equilibrio fra gli eventi storici e la vita quotidiana di questa famiglia immaginaria ma così reale ha rappresentato, dunque, il passo più difficoltoso per la stesura della sceneggiatura. La parte più creativa, invece, è stata  tutta quella riguardante Martina, il cui “mutismo di circostanza” ci ha costretti – fortunatamente – a seguire una direzione drastica e altrettanto decisa, puntando tutto sullo sguardo a discapito dei dialoghi.

   Dovessi pensare a un seguito per questa vicenda dal titolo così malinconicamente benaugurante, in quale luogo e in che modo ti piacerebbe immaginare Martina e il suo fratellino divenuto l’uomo salvato e tanto atteso?
   Martina, nel film, è la speranza: è la custode della memoria storica, la persona che crescendo racconterà al fratello quello che e' stato il mondo di Monte Sole prima della sua completa distruzione. Martina dunque si farà madre di questo piccolo essere che, col tempo, imparerà a rifiutare la guerra irrevocabilmente. È questo il messaggio del film ed è su questo che si potrebbe immaginare l'ipotetica evoluzione delle vicende. C'è da augurarsi, dunque, che le parole riacquistate di Martina e quelle del fratello fattosi adulto possano essere ascoltate dai più per fare maturare nelle persone e nelle loro coscienze un rifiuto atavico e irrevocabile per qualsiasi conflitto bellico, relegando il termine “guerra” ad un vocabolo descrittivo di una realtà passata, come accade – che so – per la parola “faraone”.