MOHSIN HAMID

Stradanove incontra l'autore del libro "Il fondamentalista riluttante"

MOHSIN HAMID

Con quale personaggio del suo libro si identifica? Con l’americano? Il pakistano? O con entrambi?

  Proprio con entrambi, e con nessuno dei due, perché per me è importante non semplificare e non identificarmi con uno solo dei due. Dire “pakistano” o “americano” o “inglese”- sono parole che non descrivono una persona. L’unica parola che può descrivermi è Mohsin, il mio nome. Ma neppure il mio nome ha un grande significato e perciò devi cercare per te stesso un significato senza contare su una identità piuttosto che su un’altra.

Dopo l’assalto alla Moschea Rossa di luglio sono aumentati gli attacchi terroristici in Pakistan? Che cosa direbbe ad un pakistano che volesse aderire al movimento fondamentalista?

Pr im a  di tutto ricordiamo che ci sono 160 milioni di pakistani, più degli italiani e dei tedeschi messi insieme, e i giovani sono davvero numerosi. A dire il vero non penso che molti siano interessati a diventare terroristi, forse è più probabile che aspirino ad essere rock star o atleti di fama. Alla minoranza che vuole diventare terrorista direi di guardarsi dentro perché la battaglia che combattono è nella loro personalità e non nel modo in cui vivono.

Come nel personaggio, dunque?
    Non è chiaro che cosa Changez diventi, si tratta di più di che cosa pensi il lettore, che è il secondo tipo di terrorista, quello che siamo tutti. Dico che siamo tutti terroristi perché ci lasciamo trasportare dalle nostre paure. Nel 2001 sono morti 3000 americani con il crollo delle torri, 42.000 persone sono morte in incidenti stradali, eppure, quando un uomo barbuto si siede accanto a noi in metropolitana, siamo terrorizzati. E non abbiamo paura invece al volante. Così ci terrorizziamo da soli. Esiste il problema, è vero, ma il problema è anche nella velocità con cui perdiamo il senso delle proporzioni.

Nel romanzo ha messo in evidenza, tra le cause che portano al terrorismo, l’invidia per i paesi ricchi. Ci sono quindi delle cause precise per il terrorismo?
   C’è una rete complessa di cause che hanno provocato il terrorismo. E’qualcosa di difficile da cambiare individualmente. Possiamo smettere di applicare politiche che danneggiano la vita di altre persone, ma non riusciremo a fermare le crisi psicologiche che ci portano ad uccidere gli altri. Tra dieci anni magari non ci sarà più Al Qaeda, ma ci saranno persone in Italia che uccideranno per droga o altri motivi. Non significa che non dobbiamo fare nulla, ma che dovremmo essere pragmatici e accettare che viviamo in un mondo di rischi. Al momento pensiamo che sia l’invasione in Iraq che ha creato certe situazioni, non abbiamo accettato il fatto che delle persone siano state uccise negli attentati. Dobbiamo trovare il modo di vivere nonostante gli eventi tragici. Le probabilità sono che veniamo uccisi da un parente- ricordiamoci che viviamo in un mondo pieno di molti altri rischi. La ragione per cui parlo di saper accettare i rischi non è perché penso che la politica non sia importante. Lo è, ma non so quanto siamo in grado di plasmare la politica. So che possiamo riuscire a governare le nostre paure e questo è un punto di partenza.

Come pensa che il suo libro possa influenzare la prospettiva del lettore sul rapporto americani-musulmani?
   Come scrittore bisogna operare ad un livello più basso e questo livello è l’esperienza personale del lettore del testo. Se un lettore inizia a provare simpatia per il personaggio, questo è un passo avanti. E se qualcuno legge e si chiede, “che cosa succederà alla fine?” e poi si dice, “forse devo fornire io la fine”, e dopo si rende conto che non è così spaventoso come sembra., forse il lettore capisce che le sue paure sono esagerate e anche questo è un passo avanti.

Il suo romanzo precedente, “Nero Pakistan”, alternava diverse voci narranti; in questo c’è solo una voce, quella di Changez. Perché era giusta la scelta delle tante voci in “Nero Pakistan” e perché è giusta quella di una sola in questo romanzo?
   In entrambi i romanzi cercavo di fare una cosa simile da un punto di vista formale. Penso che, per capire quale sia il ruolo del romanzo oggi, è necessario partire dalla constatazione che è diverso dalle altre forme narrative. Quando si guarda un film, si partecipa ad una forma narrativa più popolare ma limitata a testimoniare l’esperienza di qualcun altro. Si vede una donna bella sullo schermo e si è attratti da lei, si sente il rumore di uno sparo e si fa un salto sulla sedia. Quando si legge un romanzo, si tiene in mano del legno trasformato in carta e coperto da pigmenti neri, e da questo vengono odori e sentimenti. Succede perché è il lettore che li sta creando. Il lettore partecipa alla creazione del romanzo: questa è la caratteristica del romanzo. Aumentare la co-partecipazione del lettore è importante, per me significa inglobare il lettore come protagonista, creare una storia che richiede al lettore di trarre le sue conclusioni, che sono diverse a seconda di chi legge. Il mio progetto è creare insieme ai lettori. Nel primo romanzo ho provato con diverse voci, provocando una certa ambiguità tra le storie, e ho chiesto al lettore di giudicare che cosa fosse vero. Mentre giudica, il lettore rivela molto di se stesso. Nel secondo romanzo mi sono reso conto che il lettore poteva nuovamente essere giudice, non raccontando però la storia con diversi punti di vista da parte di diversi protagonisti, ma una storia in cui il lettore e il protagonista sono i due diversi punti di vista: la visione del mondo del lettore influenza il mondo del protagonista. In pratica ho cercato di fare la stessa cosa in entrambi i romanzi, ma nel secondo ho migliorato il mio progetto di co-creazione.

Il nome del protagonista è Changez. Ha scelto di proposito un nome che in francese è la forma imperativa di un verbo e significa, quindi, “cambiate”? E’ forse un invito agli americani a cambiare, significando pure il cambiamento nel personaggio?
   E’ incredibile: questa è una domanda che mi hanno fatto anche gli americani. Non ci avevo pensato: il nome Changez è la forma in urdu per Gengis Khan e Gengis Khan era l’invasore che attaccò il mondo musulmano. La domanda che il nome dovrebbe suscitare è: come può un uomo con questo nome essere un fondamentalista islamico? Tuttavia nessuno mi ha seguito su questa linea- si tratta di nuovo di co-creazione: ti fanno certe osservazioni e scopri che tu, come scrittore, non volevi comunicare quelle cose, eppure hanno colto nel segno.

Nel romanzo non si dice poi molto sul “fondamentalismo” del personaggio: in quale modo usa questa parola? C’è anche un gioco di parole con il tipo di economia che è pure, in un certo senso, fondamentalista?
Ci sono almeno tre tipi di fondamentalismo con cui gioca il titolo: il primo è che i musulmani che vivono in Europa o in America sono tutti fondamentalisti riluttanti perché, se sei al bar e ordini una birra, su di te aleggia la domanda, ‘sei un fondamentalista?’, finché appare la tua fidanzata con una gonna mini che fuga i sospetti. Il personaggio affronta questo sospetto, ecco perché riluttante. Secondo, anche se non è religioso si comporta come un nazionalista musulmano e in questo senso sta percorrendo la strada del fondamentalismo. Inoltre lavora in una compagnia che valuta le altre aziende in base a principi economici e rifiuta l’aspetto umano che ciò implica: è un fondamentalista riluttante dell’economia.

In “Nero Pakistan” l’episodio centrale del libro- quando uno dei due amici lascia che l’altro venga ingiustamente accusato dell’incidente d’auto- ricorda la vicenda de “Il grande Gatsby”e anche in questo romanzo Lei cita il romanzo di Fitzgerald quando Changez va al ricevimento a casa del suo capo. “Il grande Gatsby” è uno dei suoi libri ‘di riferimento ’ ?
   Credo che sia un romanzo molto bello: Fitzgerald si concentra sulla vita di persone privilegiate e se ne allontana leggermente- e questo è anche il mio spazio, quello che faccio io. E poi Fitzgerald è andato a Princeton come me. Mi ha sempre affascinato come due persone che hanno frequentato la stessa università affrontino lo stesso argomento, uno proveniente dal Pakistan e l’altro americano e a 100 anni di distanza. Credo che, se ci potessimo incontrare, avremmo tanto di cui parlare- ma forse Fitzgerald non sarebbe d’accordo.

Leggere, scrivere: quali sono state le sue letture da bambino in Pakistan? E che cosa la porta a scrivere?
   Ho letto molto, mio padre mi ha introdotto ai fumetti: leggevo Asterix e anche Tin Tin. C’era un libro per bambini che amavo molto, parlava di un ragno parlante e di un maiale. Essenzialmente era un libro che introduceva un bambino al tema della morte, in maniera bellissima, secondo il ritmo delle stagioni: creava un’enorme tristezza ma niente paura. In Pakistan non ci sono molti libri per bambini, ma la famiglia si riunisce e ti racconta storie; c’era un solo canale alla televisione, iniziava alle 5 del pomeriggio e finiva alle 11 di sera. Tutto quello che c’era erano le conversazioni: sono cresciuto con storie fantastiche che forse ormai nessuno ricorda più.

E perché scrive?
   Perché devo. Scrivere è uno dei lavori più solitari. Il libro ha avuto successo ma, se si guarda il guadagno e lo si divide per 7 anni, la cifra che si ottiene è inferiore a quanto guadagni chiunque abbia la mia età e lavori in un’azienda. Scrivo perché scrivere mi permette di esplorare le tensioni che convivono dentro di me. Sono infelice quando non scrivo e scrivere è l’unica cosa che ho cercato di fare per la quale sentivo di essere nato. Penso che gli scrittori scrivano per lo stesso motivo per cui la gente si innamora: siamo fatti così e ci sentiamo tristi se non proviamo a fare quello che sentiamo di dover fare.