JUAN GABRIEL VÁSQUEZ

Stradanove incontra l'autore del romanzo "Storia segreta del Costaguana"

JUAN GABRIEL VÁSQUEZ

Juan Gabriel Vásquez è nato a Bogotà nel 1973, ha studiato alla Sorbona a Parigi e si è trasferito a Barcellona nel 1999 dove tuttora unisce l’attività di collaboratore con riviste spagnole e latinoamericane a quella di traduttore. Abbiamo appena letto il suo primo romanzo tradotto in italiano, “Storia segreta del Costaguana”, e abbiamo incontrato lo scrittore per parlare con lui di questa vicenda epica, un capitolo importante nella storia della Colombia e dell’America Latina.

La condizione dell’esilio- anche Lei è un esiliato, come José Altamirano. Perché ha scelto di vivere a Barcellona?
   Prima di tutto, visto che nell’America Latina c’è una tradizione politica dura e difficile di esilio, mi pare importante sottolineare che io non sono un esiliato politico, sono qualcuno che è voluto andare all’estero ed è libero di tornare quando vuole nel suo paese. Perché ho degli amici cileni e argentini che sono stati mandati in esilio e io non voglio sfruttare un’aurea del genere. Perché Barcellona? Prima sono andato a Parigi, poi un anno in Belgio e alla fine ho scelto Barcellona per una serie di motivi: volevo tornare a vivere nella mia lingua; d’altra parte sapevo che la letteratura latino americana era stata ben ricevuta a Barcellona, Vargas Llosa e Márquez vi avevano abitato.
   Barcellona ha saputo leggere la letteratura latino-americana. Avevo l’intuizione che una città, che aveva la tradizione di ricevere scrittori latino-americani ed era ricca di case editrici, poteva essere la città giusta per me, per vivere secondo i miei obiettivi, vivere della letteratura, e nello stesso tempo sentivo che era la città in cui i miei libri sarebbero stati letti come volevo.

E la condizione dell’esule è forse una opportunità dolente per guardare meglio, dalla distanza, il proprio paese?
   Sì, mi è successo qualcosa di strano con la vita fuori della Colombia: sono convinto che, se non fossi andato via, non sarei riuscito a scrivere della Colombia. Era il 1996 e ci ho messo sei anni prima di scrivere sul mio paese. Una volta pensavo che si debba scrivere su quello che si conosce, e io non capivo la storia, non capivo la politica, il presente politico del mio paese. Nel 2002 ho scoperto che non capire qualcosa è la miglior ragione che uno scrittore abbia per scrivere. Mi interessa il romanzo per capire quello che non sapevamo. Perciò sì, sono necessari la distanza e il tempo passati fuori dal proprio paese.

Tra gli scrittori esuli c’è chi, come Joyce, ha continuato a scrivere sempre e solo di Dublino; chi, come Conrad, non ha mai scritto della Polonia. Lei ha iniziato con la Colombia- quale sarà l’ambientazione del prossimo romanzo?
   Nel 2004 scrissi il mio primo romanzo sulla Colombia, “Los Informantes”, e prima avevo scritto un libro di racconti ambientati in Belgio e Francia: su 7 racconti ce n’è solo uno con un personaggio colombiano. Quindi c’è già stato un passaggio o un cambiamento: prima ho scritto su questi paesi perché non capivo il mio, ed ora questo appena pubblicato in Italia. Con ogni pagina che scrivo capisco che la letteratura che mi interessa è quella che racconta quello che nessuno ha mai raccontato prima. La storia del mio paese è piena di momenti oscuri. E’ falso che Márquez abbia raccontato tutto quello che c’era da raccontare della Colombia. Credo che se la letteratura deve illuminare gli angoli oscuri della nostra esistenza, ci sono ancora molti territori del mio paese da esplorare prima di passare ad altro.

Come ha avuto l’idea di intrecciare la vita di José Altamirano con quella di Joseph Conrad?
   Avevo già scritto, per commissione, una breve biografia di Conrad nel 2004. Mentre scrivevo tornavo ad entrare in contatto con un mito storico colombiano, secondo cui Conrad potrebbe aver calpestato il suolo colombiano nel 1876 portando armi di contrabbando, e dopo, nel 1903-1904, scrisse “Nostromo”, basato in gran parte sulla storia politica colombiana. Non è chiaro se la prima di queste due cose sia vera, ma per la seconda, invece, il paese fittizio che lui chiama Costaguana- se si conosce la storia di Panama e della separazione di Panama- sono evidenti le analogie. Questa idea, che uno scrittore che per me era un modello estetico, avesse scritto sulla storia del mio paese- che uno scrittore che per me era una sorta di ossessione avesse scritto sulla mia ossessione- era molto seducente.
   José Altamirano è semplicemente la voce che racconta questa storia in cui Conrad e la storia colombiana si uniscono. In qualche momento è stato come se Altamirano mi parlasse in una seduta spiritistica, era una voce ironica, sarcastica, e seppi che questo romanzo doveva essere ironico, con tinte da tragicommedia, con la voce di Altamirano. Non c’è un romanzo finché lo scrittore non sa chi lo racconta.

Ecco, ha parlato di tinte da tragicommedia: perché ha scelto la tragicommedia per raccontare la storia del Costaguana/Colombia?
   In parte perché ho sempre temuto la ridondanza del romanzo o dei romanzi che raccontano quello che già sappiamo dai libri di storia, da film o documentari. Quando seppi che avevo in mano una storia che non è quella che è sui libri di storia, dovevo reinterpretarla, raccontarla in maniera come non era mai stata raccontata, perché non fosse ridondante. Dovevo parlare di un periodo tragico ma con il tratto del romanzo picaresco, che mescolasse commedia e avventure. Questo era per me il metodo perché il romanzo dicesse al lettore cose che non potrebbe trovare in nessun altro libro.

E perché il momento cruciale del primo tentativo, quello francese, di aprire il canale di Panama?
   Perché la colonna vertebrale della storia è la costruzione del canale, una delle grandi avventure americane del secolo XIX, più che mai appassionante perché la costruzione del canale rappresentò la lotta dell’uomo contro la natura, la lotta del progresso contro la politica reazionaria, la lotta del cosmopolitismo contro il provincialismo di chi voleva conservare l’isolamento. La metafora del canale è molteplice: a parte il contenuto di avventura umana, mi piaceva la semplice idea di narrare fatti che possano essere “eroici”, un’avventura piena di dignità. Conrad non voleva che lo chiamassero scrittore di avventura perché già allora quello era un genere di intrattenimento. Normalmente anche per noi è così, e tuttavia i grandi scrittori di avventura hanno una dignità letteraria e io volevo recuperare questa dignità.

Miguel Altamirano e il suo “giornalismo rifrattivo”: il tema della scrittura che modifica la realtà scorre in tutto il romanzo. Si vuole sottolineare che il romanzo può essere rifrattivo mentre il giornalismo, che deve informare sulla verità, non può esserlo?
   E’ il discorso della ridondanza: per me non è che il romanzo può essere rifrattivo, ma deve esserlo perché il contrario, cioè il romanzo che non lo è, sta dall’altra parte. Kundera ha detto che l’unica ragione di essere del romanzo è dire ciò che solo il romanzo può dire. Voglio dire che il vero romanzo non riproduce la realtà, la trasforma in qualcosa di nuovo. E’ la rifrazione. Il romanzo che non sia rifrattivo, non racconta niente di nuovo, ci dice quanto già sappiamo, è inutile, è ridondante.

E tuttavia Miguel Altamirano muore di “disincanto”, ci pare che la sua fosse una forma di quello che in inglese si chiama ‘wishful thinking’, desiderare che si avverasse quello che lui voleva. La sua tragedia è l’incapacità di vedere la realtà?
   Sì, la vita di Miguel Altamirano è in un cero senso il simbolo del fallimento latino-americano, certamente di quello colombiano del XIX secolo e dell’idealismo. Il secolo XIX è come se formasse un grande arco in cui al culmine si arriva al realismo in tensione del progresso, la rivoluzione borghese, i successi scientifici, e alla fine del secolo XIX e all’inizio del XX l’uomo si rende conto che tutte le buone intenzioni sono fallite e si precipita nella prima guerra mondiale. Il secolo XIX è la metafora del fallimento dell’idealismo e Altamirano incarna questo fallimento.