JODI PICOULT

adanove incontra l'autrice di "Senza lasciare traccia", vincitrice nel 2003 del New England Bookseller Award

JODI PICOULT

Abbiamo intervistato la scrittrice americana Jodi Picoult, che nel 2003 ha vinto il New England Bookseller Award e di cui la casa editrice Corbaccio ha già pubblicato “La custode di mia sorella” e “Il colore della neve”.

I suoi romanzi non si limitano mai a raccontare una storia, Lei mette i suoi personaggi in situazione estreme dove devono fare scelte difficili tra Bene e Male: è sempre così sottile il confine tra Bene e Male?
   Penso che sia difficile fissare con esattezza quello che è bene e quello che è male, perché accade spesso che quello che sembra bene da un punto di vista sia male da un altro. A volte si fanno delle cose molto cattive per proteggere chi si ama e a volte si fanno delle cose buone che però sono cattive nel caso particolare. E penso anche che sia molto difficile dire che una persona è buona o è cattiva. Volevo forzare il lettore a cercare delle risposte davanti ad una data situazione: Andrew infrange la legge per due volte, prima quando rapisce la figlia e poi quando è in prigione e diventa uno spacciatore. Però, questa seconda volta lo fa per salvare se stesso e per permettere al figlio del suo amico di avere una vita migliore: questo lo rende buono o cattivo?

Il punto di inizio del romanzo è stata una riflessione sull’ingiustizia del fatto che i bambini vengano quasi sempre affidati alle madri, in caso di divorzio?
   No, l’inizio di questo libro è stato molto diverso dagli altri. Stavo scrivendo un altro romanzo e ho sentito questa voce nella mia testa che diceva “avevo sei anni quando scomparvi per la prima volta”. Ho messo da parte l’altro libro che stavo scrivendo, ho buttato giù quaranta pagine con quella voce che poi era quella di Delia. Dopo averla sentita parlare ho scritto di una persona che cerca persone smarrite e non sa che è lei stessa che si è persa. Ormai in America accade spesso che i bambini siano affidati ai padri invece che alle madri, io volevo far riflettere su che cosa sia la giustizia in una situazione che può essere letta in parecchie maniere.

Soltanto alla fine comprendiamo appieno le motivazioni di Andrew per il rapimento della bambina, e tuttavia non possiamo fare a meno di giudicarlo un poco egoista nei confronti della ex moglie per non averla contattata per ben 28 anni.
   Penso che quella sia una parte piuttosto realistica nel libro: quando sei un genitore, i figli pensano a te come a un supereroe, poi crescono e smettono di pensarlo. Andrew cerca di prolungare quell’esperienza, non vuole che sua figlia Delia pensi male di lui, lo ha sempre ammirato. Sì, è egoista, è colpevole di non voler rinunciare all’ammirazione di Delia.

Tutto considerato, Elise non è una mamma molto “presente”, non lo era nel passato e non lo è adesso: l’ha “creata” così per distruggere il mito della maternità?
   No, il fatto è che ho incontrato un’alcolista e so che cosa significa. La loro è una malattia, gli alcolisti lo sanno molto bene. Elise è venuta a termini con il bere ma si porta dietro una cicatrice del passato. Il suo ruolo nel libro è di rappresentare il male di una malattia che non nuoce soltanto ad una persona ma a tutta la famiglia.

C’è una scena molto ambigua, quando Delia si sveglia, la sua bambina è scomparsa e poi viene fuori che ha seguito Victor, il nuovo marito della nonna, per un gelato. Delia non sospetta nulla ma noi lettori sì- è stata messa apposta questa scena?
   Sì, perché si scopre dopo che Victor è un personaggio con molte ombre: forse ha abusato di Delia, è un’informazione che esce fuori molto tardi al processo e solo allora Delia connette le cose e inizia a preoccuparsi di quello che può essere successo quando lei non era là con la sua bambina.

Né Fitz né Eric hanno avuto una vita felice in famiglia, quando erano bambini: una prova che un bambino può crescere bene, o forse anche meglio, con solo un genitore?
   Penso che alcune famiglie in cui c’è un solo genitore siano più felici di altre in cui ci sono entrambi i genitori, ma questi stanno insieme per amore dei figli, litigano di continuo e l’atmosfera è orrenda. Fitz ed Eric sono i personaggi che sottolineano come un figlio possa comportarsi più da adulto degli adulti in una famiglia che non funziona.

Parliamo del personaggio di Ruthann, la saggia indiana pellerossa che vive accanto a Delia nel campeggio per roulotte. La sua storia è un piccolo romanzo dentro il romanzo: qual è il suo ruolo?
   Il ruolo di Ruthann è quello di insegnare a Delia che a volte puoi infrangere la legge e tuttavia fare la cosa giusta. In particolar modo quando Ruthann si suicida e Delia è testimone della sua morte: è responsabilità di Delia dire alla polizia quello che ha visto e però Delia non lo fa, perché sa che Ruthann voleva questa fine e ne aveva bisogno. Ruthann è il personaggio che non segue le regole ed è infine più felice.

Ruthann ha qualcosa in comune con la madre di Delia, il loro essere “forestiere” in America, o piuttosto “diverse”, e il loro interesse nel patrimonio di conoscenze popolari, la loro capacità di usare la medicina naturale: perché sottolinea queste loro caratteristiche?
   In realtà Ruthann non è forestiera ma è più americana di tutti gli altri, ma sì, appartengono entrambe a due culture diverse: i messicani e gli indigeni americani celebrano l’importanza della famiglia. Ecco perché certe scelte, la tradizione e l’importanza dei guaritori, che sono fuori dall’ordinario, illustrano che puoi trovare quello di cui hai bisogno al di fuori dei mezzi comunemente diffusi. Puoi trovare delle cose dove non ti aspetti di trovarle: questo è uno dei temi del libro.

I capitoli che riguardano Andrew in prigione sono un altro breve romanzo dentro il romanzo: da dove ha ottenuto tutte le informazioni per descrivere le bande all’interno della prigione, il loro linguaggio, i loro traffici?
   Ho fatto molte ricerche, sono andata proprio nella prigione in cui viene rinchiuso Andrew, ho parlato da sola a solo con i detenuti- un’esperienza che mi ha fatto provare anche un po’ di paura. Tutto quello che si legge nel romanzo proviene da quanto mi hanno raccontato i detenuti- i soprannomi dati alle bande e ai singoli carcerati, persino la ricetta per la metanfetamina l’ho avuta da un detenuto: non l’ho messa completa nel romanzo, ho tralasciato alcuni passaggi…

Deve essere stato un lavoro lungo- registrava i colloqui? Erano contenti di parlare con Lei, i detenuti?
   Ho frequentato la prigione più o meno per un mese e mezzo e no, è assolutamente proibito registrare, potevo solo prendere appunti. Erano tutti molto contenti di parlare perché nessuno vuole parlare con loro: erano felici di essere ascoltati.

Sono stati questi i capitoli più difficili da scrivere, visto che sono così lontani dalla sua esperienza?
   Non è stata una parte difficile perché era tutto molto interessante, imparavo molto e a me piace imparare e poi insegnare quello che ho imparato. Sono state più difficili le parti di Delia, perché c’è molta emotività in quelle sezioni e c’è una linea sottile tra essere emotivi ed esserlo in eccesso.

Il personaggio di Delia è, stranamente, proprio il meno definito- ad esempio non capiamo che cosa abbia per essere amata tanto da due uomini. Voleva forse fare sì che sembrasse che Delia manchi di qualcosa, per via della sua esperienza personale?
   Volevo che il lettore scoprisse Delia come Delia scopre se stessa. Tutto quello che ci dice nel primo capitolo risulta essere un vuoto e noi lettori dobbiamo scoprire chi sia Delia veramente.

Come nel romanzo precedente, la storia è affidata a parecchie voci : perché sceglie lo stile delle voci multiple?
   Perché in particolare in questo romanzo nessuno ha la verità e ognuno ha la sua propria impressione di quello che è successo, ognuno ha la sua memoria e il lettore deve vagliare quello che ognuno dice o ricorda: che cosa è vero? Volevo che il lettore setacciasse le memorie dei vari personaggi e scegliesse quale fosse la storia vera.