GIOVANNI MONTANARO

Ha soli 24 anni l'autore di "La croce Honninfjord". Lo abbiamo incontrato per farci raccontare da quali esperienze e passioni è nato il suo libro

GIOVANNI MONTANARO

Diciamo la verità: il romanzo “La croce Honninfjord” ci ha talmente colpito che abbiamo cercato l’autore, Giovanni Montanaro, a Venezia dove vive, per parlare con lui del suo libro. E di lui stesso, naturalmente.

Una laurea in giurisprudenza presa a fine ottobre e un romanzo pubblicato: niente male, visto che hai solo ventiquattro anni. Come concili gli studi di legge e la letteratura?
   La realtà è che mi piacciono tante cose contemporaneamente- organizzo eventi teatrali, seguo reti di associazioni nell’ambito culturale qui dove a abito, a Venezia… Ho scelto Giurisprudenza perché mi piace, anche se scrivere per me è una grande gioia: quando ho in testa qualcosa, devo scriverne e la scrittura diventa la mia priorità. E’ successo così con questo libro: mentre lo scrivevo ho fatto principalmente quello, ma so bene che è difficile fare lo scrittore a tutto tondo- io ho avuto molta fortuna, ho trovato persone che mi hanno dato buoni consigli, e soprattutto ho trovato subito un editore che pubblicasse il mio libro.

Ecco, come hai fatto a trovarlo? Si parla spesso della difficoltà, per un esordiente, di trovare un editore…
   Per me è stato importantissimo partecipare al premio Calvino, un premio che nasce a Torino per romanzi inediti: lo ha vinto Susanna Tamaro, è il premio che ha messo in luce la Mastrocola. Nel 2006 io sono stato menzionato per questo romanzo, anche se era parecchio diverso da come è adesso. La casa editrice Marsilio mi ha contattato e ho cominciato a lavorare umilmente con un ottimo editor. All’origine il romanzo era solo la storia di Bjorn che parte, la raffigurazione dell’archivio era molto più borgesianamente onirica, non c’erano le altre tre storie. Mi è stato detto che il materiale era notevole e che dovevo lavorarci sopra. Ed è quello che ho fatto, con umiltà.

Il materiale del tuo romanzo colpisce perché è atipico nel panorama del romanzo italiano. Come è nato questo romanzo?
   Devo confessare che, in origine, il romanzo era più “italiano” da un punto di vista narrativo, poi è cambiato sulla base di consigli ed anche di una mia esigenza personale di semplificazione. Quando sento la necessità di raccontare qualcosa, metto la storia, per così dire, davanti a me. Temo che in Italia ci siano più scrittori che romanzieri, a me piacerebbe essere soprattutto un romanziere prima di essere uno scrittore. Si fa fatica a raccontare delle storie, io ho sentito che c’erano più storie che si collegavano, c’erano degli intrecci che scoprivo senza volerlo. Poi mi sono reso conto che il volume diventava troppo grosso e ho cominciato a semplificare. Le immagini da cui sono partito sono due: la corrispondenza, cioè l’idea che una persona riceva una lettera- e che magari non sia stata inviata da chi si finge il mittente-, e, dall’altra parte, due uomini che suonano una partitura dedicandola ad una donna. Queste due immagini mi hanno a lungo tormentato, finché ho cominciato a vedere i loro volti, sapere chi erano, conoscere le loro storie…ecco, così è nato il romanzo.

Una delle storie riguarda la resistenza in Norvegia: da dove viene questa storia? Non è che a scuola si parli molto di questo…
   La Norvegia è un paese che mi piace, ci sono stato in viaggio per una decina di giorni. E a me piace studiare, fare ricerche su cose particolari che mi piacciono. Avevo scoperto questo episodio della resistenza norvegese, del sabotaggio della bomba atomica. C’è anche un film su di questo, è degli anni ‘50, mi sembra. E mi è parso bello raccontarlo in questa storia.

E il filone della musica? sei un esperto di musica?
   No, sono ignorante di musica ma mi piace e mi piace la musica gregoriana. La musica mi affascina come forma di composizione; se dovessi paragonare un romanzo a qualcosa, lo paragonerei alla musica. E ho amici musicisti che mi hanno aiutato. Mi piacerebbe rendere l’idea di contenuti che sembrano distanti e che nascondono scelte che sono semplici: così la musica monodica e polifonica che rappresentano l’unicità e la molteplicità.

Come è avvenuta la costruzione del romanzo? Come è avvenuto il passaggio dalla storia alla musica alla filosofia?
   Partendo dal calendario gregoriano, il paragone tra la musica e il tempo mi è venuto in mente così, all’improvviso, anche se non vorrei affatto sembrare lo scrittore “ispirato”. Mi accade spesso che mi vengano in mente delle immagini forti e parto da quelle cercando di capire, da un personaggio il mio pensiero si allarga al mondo che gli è intorno. A un certo punto c’è un passaggio logico: perché un monaco non avrebbe voluto la polifonia? Solo per un motivo estetico? Certamente no. Mettere in discussione l’unicità poteva avere delle conseguenze. E mi è parsa una strada su cui avevo voglia di capire e di insistere.

Parlando ti capita di riferire a tue abitudini di scrittura: quando hai iniziato a scrivere?
   Sbagliando, ho iniziato a scrivere molto prima di essere un forte lettore. A 9 o 10 anni scrivevo gialli, naturalmente erano gialli da bambino, ma il genere giallo mi ha sempre interessato: mi affascina che il quadro si chiuda, che il mistero si sveli. Sono stato un buon studente di italiano e ho scritto in molti modi, racconti, introspezioni da adolescente, poesie incomunicabili. Dopo il liceo ho fatto del giornalismo, ho scritto per il teatro: mi piace la scrittura come strumento, mi piacciono le parole, mi piace la rima. Questo è il primo romanzo che pubblico, ho scritto alcune cose per il teatro, anche perché ho formato con degli amici una compagnia teatrale e abbiamo messo in scena alcune cose che ho fatto io. Ho anche vinto un concorso per giovani autori con il testo di “Arriva sempre la stessa lettera da Vienna”.

Ritornando al romanzo, un’immagine che ho trovato fantastica è stata quella dell’archivio: perché hai dato tanto risalto alle scene che si svolgono nell’archivio?
   L’archivio è un punto fondamentale e vorrei che si capisse. Il punto filosofico di partenza è dato dal custode Bjorn che doveva rappresentare il giovane che ha tutta quella memoria sulle spalle e deve conservarla e non capisce come “proseguire” questa memoria. Rappresenta la nostra generazione che ha così tanto alle spalle e che si chiede che cosa debba fare nella Storia. Arrivi con una forte carica di passato e ti chiedi, ‘che cosa faccio io?’. Il custode dell’archivio riassume questo pensiero. E poi ho letto Borges e Saramago, ma ho fatto qualcosa di diverso, facendo scendere Marie e Bjorn nei passaggi segreti dell’archivio. Volevo dare una dimensione filosofica ma anche far capire che questi grandi temi- memoria e amore e eresia e inganno- non hanno senso se non sono declinati nella singola storia, nell’esperienza del singolo individuo.

Sei fresco di laurea, hai pubblicato un romanzo, si rappresenta a teatro una parte del tuo libro: come vedi il tuo futuro?
   Inizierò certo a lavorare, a fare pratica come avvocato e mi preparerò all’esame di Stato. E continuerò a scrivere, per me è fondamentale. Ho delle idee per il prossimo libro, devo studiare e approfondire. Ma scrivere per me è una gioia che è difficile paragonare ad altro.