BERNICE EISENSTEIN

Intervista all'autrice di "Sono figlia dell’Olocausto", un romanzo illustrato che sprigiona un grande amore per l’arte e la letteratura

BERNICE EISENSTEIN

Abbiamo intervistato Bernice Eisenstein, che è nata nel 1949 in Canada, dopo che i suoi genitori emigrarono lì dall’Europa, e che è riuscita a combinare in un romanzo illustrato le sue due grandi passioni, l’arte e la letteratura.

Il suo libro è una graphic novel, un romanzo illustrato: che cosa è venuto per prima? I disegni o il testo? Ed è stato il bisogno di fissare la memoria su carta che l’ha spinta a scrivere il libro?     In effetti il libro non è iniziato come libro. Qualche anno fa stavo dipingendo un ritratto di mio padre, cercavo di catturare la sua immagine e la mia mente ha iniziato a vagare. Mentre lo dipingevo, ho incominciato a pensare a lui, a quello che avevo perso come figlia, alla protezione speciale che mi dava. E questo ha messo in moto un ripensamento di tutto il mio rapporto con lui in una sorta di tempo spezzato che è il tempo della memoria: si è aperta una porta sul suo passato.
   Era una memoria a molti strati, c’erano le cose che avevo saputo mentre crescevo e poi quelle che non sapevo, quello che era successo durante l’Olocausto, il rapporto tra i miei genitori e quello tra di loro e il circolo degli amici che erano sopravvissuti e, insieme a loro, avevano formato come uno shtetl dentro la città. In me si è creata una nuova sensibilità, ho iniziato con un quadro e poi sono venute le parole e le due cose si sono unite in una voce sola. Passavo dal disegno alla scrittura, avevo vicino a me un blocco su cui prendevo appunti per dei disegni mentre scrivevo. Nel mio studio ci sono due scrittoi e io danzavo da uno all’altro, a volte fermandomi di più ad uno e a volte all’altro. Il libro riflette quel processo della memoria. Il disegno parla una lingua e lo scritto ne parla un’altra, si completano insieme. E’ così che definisco una graphic novel: parole e immagini.

Come interagiscono il testo e i disegni? Voglio dire: che cosa, dentro di Lei, le diceva dove doveva aggiungere un disegno per spiegare meglio, in un’altra forma, quello che stava raccontando?
   Quando disegnavo un viso o una situazione, questi erano vivi dentro di me. Il disegno mi porta vicino ad un luogo senza le parole ma con i sentimenti. E anche se i sentimenti sono confusi, si chiariscono mentre disegno. Le parole diventano l’architettura e aiutano il pensiero: dal sentimento si va al pensiero e le parole continuano il processo del pensiero che le ha generate.

Lei è nata in Canada e sua sorella è nata nel campo profughi di Bergen Belsen: strettamente parlando è lei la vera figlia dell’Olocausto. Avete mai parlato tra di voi della differenza, dell’essere nata “là” e “qui”, “prima” e “dopo” l’emigrazione dei vostri genitori?
   E’ una domanda interessante, perché è proprio così, e tuttavia ci sono solo tre anni tra di me e mia sorella e siamo cresciute insieme nel mondo nuovo dove sono approdati i miei genitori. E tuttavia è vero che lei apparteneva agli inizi, a quando la vita ricominciò ad essere di nuovo “creata”. Per me mia sorella è il simbolo dell’inizio della guarigione dei miei genitori.

Il suo romanzo sembra essere dettato non solo dal desiderio di portare testimonianza ma anche da quello di rendere un tributo al coraggio dei suoi genitori, alla forza d’animo che hanno avuto nel ricostruirsi una vita senza influenzare indebitamente i loro figli: quando si è resa conto di questa loro incredibile forza?
   Scrivendo il libro mi sono resa conto dell’incredibile forza vitale dei miei genitori, la forza vitale che ti spinge ad andare avanti, la capacità di amare e di mettere su famiglia. Eppure erano gente comune. C’è un detto yiddish che dice “Non c’è un cuore più intero di un cuore spezzato”: ecco, ho capito che i loro cuori erano rotti, eppure i miei genitori e il gruppo di loro amici rappresentano la speranza per il cuore con il loro sforzo di ricostruirsi una vita. Ogni volta che si riunivano, io vedevo un misto di gioia e tristezza: era impossibile che il loro pensiero non andasse a chi non era là con loro. La loro gioia significava sempre rimuovere qualcosa. Per mio padre il coraggio di vivere significava superare il ricordo di non essere riuscito a salvare la sua famiglia- è qualcosa di cui non ha mai potuto parlare.
   E tuttavia l’amarezza del rimpianto non ha mai interferito con il suo amore e il suo senso di protezione nei nostri confronti. Era un uomo tranquillo e appassionato. Una parte del mio libro è su una generazione quasi del tutto scomparsa, anche io invecchio e per me era importante esprimere i miei sentimenti. Sì, penso che abbia ragione, penso che la parola che ha usato sia quella giusta: il mio libro è un tributo ai miei genitori.

Lo scrivere questo libro, il seguire le tracce all’indietro dei suoi genitori, è stato una specie di catarsi per Lei? Un riempire un vuoto, mettere in pace la mente?
   Che strano che usi la parola “vuoto”, perché è l’Europa che si è svuotata degli ebrei. Scrivere il libro mi ha riempito il cuore più che riempire un vuoto: era uno spazio che aveva bisogno di espressione perché potesse essere capito. Non è una catarsi nel senso di superare qualcosa e metterselo alle spalle, è stato uno sforzo di comprensione per portare un peso più leggero. Ho troppo rispetto per quello che i miei genitori hanno passato per affrontarlo in qualunque altra maniera, ma guardarlo da vicino mi ha messo in un’altra posizione rispetto a loro e alla loro vita.

Lei scrive che la lingua yiddish ha foggiato il suo mondo: pensa che la perdita dello yiddish sia la controparte della nascita della lingua ebraica come lingua viva? E non è una grande perdita, comunque, anche da un punto di vista letterario?
   Non posso rispondere alla domanda che riguarda la nascita dell’ebraico e Israele: certamente dopo la guerra c’era la necessità di qualcosa che servisse per costruire il paese unificandolo, la lingua. La mia esperienza ha a che fare con l’Europa e l’Europa ha perso una parte della sua cultura, perdendo la cultura Yiddish che ha influenzato molto i paesi vicini. I sopravvissuti non avevano una casa a cui tornare: io sono il prodotto della cultura Yiddish in un altro mondo. A casa si parlava Yiddish, fuori si parlava inglese.

Purtroppo, tuttavia, la lingua Yiddish è destinata a morire, diventerà come il latino…
   Sì, soprattutto perché mancano opere letterarie in yiddish. Anche se c’è un grande interesse per la lingua e la cultura yiddish, ci sono le università in cui si studia yiddish ma, sì, come dice lei, finirà per diventare come il latino fra un centinaio di anni.

Ho osservato l’affiorare del ricordo di grandi pittori nel suo disegno- Chagall, Van Gogh, Matisse…Tra gli scrittori di graphic novels, quale ammira di più, per lo stile del disegno o per il testo? E si possono separare, il tratto grafico e il testo, in un apprezzamento critico?
   Se devo fare dei nomi, il primo è Spiegelmann, non ha bisogno di aggettivi, è un classico, è uno scrittore che vede le cose come le vedo io. Poi amo molto Joe Kubert, Joann Sfar, Ben Katchor…Penso che sì, si possa separare il giudizio sul disegno e quello sul testo: alcune graphic novel sono belle più per il disegno che per la scrittura, per altre è vero il contrario. Dipende dall’artista e dal libro. Anche se i romanzi illustrati più belli sono un equilibrio perfetto tra disegno e testo. Will Eisler diceva: “Sono qualcuno che scrive con immagini”.